Vita da animali - carraraonline.com

Sezione a cura di Mario Volpi
Vai ai contenuti

Vita da animali

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
 
La "pet industry" ovvero il giro d'affari attorno agli accessori e il cibo per animali domestici italiani sfiora i due miliardi di euro. Questo la dice lunga su come sia profondamente cambiata l'atteggiamento della Società nei confronti degli animali. Si assiste così a due estremi opposti, a mio avviso entrambi sbagliati di come vengono considerati dagli uomini li stessi animali a distanza di appena mezzo secolo.
Da alcuni decenni, assistiamo a una sempre maggiore “umanizzazione” degli animali da compagnia, come cani e gatti. Non sempre però, questo amore verso i nostri amici a quattro zampe viene manifestato correttamente. Ciò accade perché, il “linguaggio” che noi usiamo, non è il loro, e spesso alcuni gesti che per noi sono di affetto o amicizia, vengono interpretati come sfide, al “soggetto alfa,” sia questo maschio o femmina, o come una vera e propria minaccia, con tutti i guai che questo comporta. Tutto ciò succede perché ormai agli animali domestici, viene affettuosamente impedito di fare correttamente “il proprio mestiere.” Molti di loro vivono in modo permanente all’interno delle nostre case, senza mai uscire, se non per la passeggiata per i “bisognini,” cosa che limita moltissimo il loro istinto, e che inconsapevolmente, alimenta una sorta di alienazione comportamentale che snatura la socializzazione verso gli altri componenti umani del “branco.” Mentre fino a meno di cinquanta anni fa, il mondo animale era sfruttato per necessità, spesso fin troppo, ora si assiste all’esatto contrario, dove gli animali sono tenuti solo ed esclusivamente per il nostro piacere ludico. Nell’Italia rurale degli anni cinquanta, ogni animale doveva “guadagnarsi da vivere,” pena il “licenziamento” definitivo. Oggi a raccontare ciò, ho quasi un senso di vergogna, visto com’è cambiato l’atteggiamento mentale degli uomini nei confronti degli animali domestici, e non, ma a quei tempi, queste pratiche, oltre ad essere considerate del tutto normali, erano necessarie, per risparmiare preziose risorse utili per la sopravvivenza sia dell’umano, che dell’animale. La maggior parte delle persone di quei tempi, viveva nelle cascine, o in piccoli borghi, dove l’aia era il centro del mondo. Attorno ad essa si svolgevano le attività quotidiane, necessarie alla sopravvivenza dell’intera comunità. In ogni aia erano presenti diversi gatti, e almeno due o tre cani. I gatti erano tenuti come “derattizzatori,” viventi, e perciò erano attentamente selezionati per fare questo lavoro, al tempo importantissimo. La selezione avveniva già al momento della nascita. Quando la massaia si accorgeva che la gatta aveva partorito, dopo qualche giorno, prendeva tutti i gattini e li spostava. Mamma gatta, com’era naturale, s’affrettava a prendere in bocca i cuccioli e a riportarli uno alla volta nel “nido.” Era ciò che la massaia attendeva, perché i primi due che la gatta prendeva, erano quelli più dotati fisicamente, inoltre avendo solo due cuccioli da allevare, questi sarebbero cresciuti sani e forti. Per il resto della cucciolata purtroppo la vita finiva tragicamente nel pozzo nero. Ma la selezione non finiva lì. Appena svezzati, i cuccioli, erano rinchiusi all’interno del fienile, o della stalla, al tempo veri e propri “serbatoi” di topi, senza dar loro da mangiare, e si aspettava tre giorni prima di riaprire. Quello che era ancora arzillo, e in forma, voleva dire che aveva cacciato i topi, quindi era promosso a pieni voti, mentre quello macilento, o con il pelo opaco, veniva messo in un sacco, e “sperso,”(abbandonato) di sera nel bosco. I cani invece si dividevano in due categorie, quelli “da pagliaio,” e quelli da caccia o da pastore. Quelli da pagliaio, di solito dei “bastardi,” (meticci) di grossa taglia, vivevano, e finivano l’intera loro esistenza attaccati a una catena che tramite una puleggia, scorreva lungo un filo teso davanti alla stalla, o alla cantina, e al pollaio della fattoria. Il suo compito era proprio d’impedire a uomini, e animali selvatici, di entrare in questi luoghi, al tempo giudicati veri e propri forzieri alimentari, basilari per il sostentamento della famiglia. Questo a prima vista sembrerebbe un compito facile, in pratica non lo era, perché il cane, doveva essere “cattivo,” con gli estranei, ma non doveva esserlo, ne con i polli, che al giorno scorrazzavano liberi nell’aia, ne tanto meno con i bambini piccoli della fattoria, spesso affidati proprio alla loro “custodia,” adagiati in una cesta di vimini appoggiata su due bigonce. Non tutti si dimostravano all’altezza delle aspettative, e spesso, per quelli non adatti, una fucilata poneva fine alla loro esistenza. Stessa cosa capitava a gli “specialisti,” da caccia, o da pastore. Solo l’eccellenza sopravviveva, mentre gli scarti erano eliminati senza esitazione, per non sprecare risorse preziose, e soprattutto per non “inquinare” la razza con soggetti non adatti. Anche i grandi animali erano sfruttati al massimo. Le mucche ad esempio, al tempo tutte di razza autoctone come la Calvanina, la Pisana, la Pontremolese, o la Garfagnina, era tenute non solo per fornire latte e vitelli, ma soprattutto usate aggiogate a coppie, per i lavori nei campi, come l’erpicatura, il traino della macchina da semina, e soprattutto per il trasporto di erba e concime, con la “tragia,” una specie di slitta di legno e vimini. Negli anni cinquanta i buoi erano già stati sostituiti dalle trattrici per il trasporto del marmo, ma nelle grandi fattorie del piano, erano ancora ampiamente usati per l’aratura, e la solcatura dei campi. Questo era un lavoro massacrate sia per l’uomo che li guidava, che con il suo peso doveva fare affondare l’aratro, sia per gli animali, costretti a lavorare in maniera squilibrata, anche se aggiogati assieme. Ciò avveniva perché, mentre  uno doveva camminare nel solco, l’altro che procedeva sul prato ancora integro, oltre che tirare l’aratro, doveva contrastare la forza verso terra che inconsapevolmente faceva quello più in basso. Questo comportava che un componente del “paio”, fosse molto più stanco dell’altro, cosa che lo faceva spesso fermare, assaggiando così nei quarti posteriori il terribile pungolo, un corto bastone con una punta di ferro lunga diversi centimetri. Il trasporto con carri e carretti trainati da cavalli, era ancora molto praticato, visto la rarità degli autocarri, quasi tutti residuati bellici americani. Le razze di equini più usate erano quelle dette ” da tiro pesante.”  Questi enormi, e maestosi animali, dovevano trainare per tutto il giorno, sotto la canicola d’agosto, o sopportando la gelida pioggia di gennaio, carichi pesantissimi, e spesso non perfettamente bilanciati, ma soprattutto, visto la conformazione morfologica del nostro territorio, prevalentemente in salita. Anche qui la selezione avveniva sul campo, un cavallo pigro, o che s’impuntava spesso, oltre a subire una vera e propria gragnuola di frustate, era probabile che finisse la sua giornata al mattatoio. Il territorio Apuano, prevalentemente montano, da sempre ha usato il mulo come mezzo di trasporto nelle zone impervie. Questi magnifici animali, spesso, ed erroneamente, giudicati testardi, e poco intelligenti, in realtà erano attenti alla loro sicurezza, e spesso se caricati troppo, o male, si rifiutavano di muoversi, e neppure la bruciante carezza della sferza li convinceva a farlo. Per la confidenza con questi animali, moltissimi giovani carrarini chiamati alla leva, oltre a diventare Alpini, erano destinati a fare i conducenti delle “jeep a pelo,” o come si diceva scherzosamente, a prendere la patente per mezzi pelosi, diventando cioè conducente muli. Tutti coloro che hanno avuto questa esperienza raccontano che dopo le prime settimane di disperazione, il contatto con il mulo era diventato talmente gratificante, che al momento del congedo hanno provato un dolore simile a quello che si prova ad abbandonare una persona cara. A Carrara si usavano soprattutto Bardotti, ossia il risultato dell’incrocio tra un cavallo maschio e un’asina, perché più possente, e più adatto alla soma, sugli angusti, e pericolosi sentieri montani. Quegli anni terribili, sono per fortuna un ricordo doloroso del passato, dove uomini e bestie facevano nel senso letterale e biblico della parola … una vita da animali.
 
Mario Volpi 2.05.2021
Racconti di questa rubrica
CarraraOnline.com
CarraraOnline.com
Torna ai contenuti