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Sezione a cura di Mario Volpi
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Patriarchi centenari

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
La crisi economica porta molte persone a cercare di sopravvivere, vendendo quello che hanno di più prezioso; l' identità tradizionale.

Dopo la Mezzaluna Fertile, Mediorientale, nata in Mesopotamia per la benefica azione di tre fiumi, furono le sponde del Mediterraneo, che favorirono lo sviluppo delle civiltà più antiche di cui si abbia conoscenza. Protagoniste di questa vera e propria evoluzione della razza umana, furono due regioni, che per la loro conformazione e di conseguenza il loro clima, favorirono in modo significativo questo sviluppo; la Grecia e l’Italia. Queste due regioni, con la loro morfologia peninsulare, favorivano la coltivazione di due veri e propri pilastri dell’economia agroalimentare del mondo antico, tanto basilari, che la loro importanza durò per millenni, fino ad arrivare ai giorni nostri, ossia il Castagno, e l’Ulivo.  Partiamo dal castagno, o com’è chiamato dai botanici “Castanea sativa Mill.” Albero di grandi dimensioni e assai longevo, visto che può vivere per secoli, prospera da un’altezza dai duecento, fino ad arrivare agli ottocento metri sul livello del mare. I Romani ne favorirono enormemente la diffusione, creando enormi castagneti in Italia, ed esportandolo nel bacino Centro Orientale del Mediterraneo. Qualche storico afferma che contribuì a salvare la specie umana dalla carestia disastrosa che in Era medievale colpì l’Europa, a seguito della terribile epidemia di peste nera del 1346. Questo perché la sua coltivazione è assai rustica e spartana, e non necessita di molta manodopera, ne tantomeno di specifiche conoscenze tecniche, in più il suo frutto è facilmente conservabile, e con lo scarto si poteva nutrire il bestiame, cosa non da poco. La sua importanza era tale che sempre nel medioevo, i proprietari dei castagneti, obbligavano per contratto i fittavoli, a piantare ogni anno cinque nuove piante di castagno. L’importanza di questa pianta non era dovuta al solo scopo alimentare. Dalla sua corteccia estremamente tenace, e resistente, veniva estratto un vero e proprio oro liquido; il Tannino, usato per millenni come ingrediente principale nella concia delle pelli, e nella fabbricazione dei primi inchiostri. Il legname, compatto, e molto resistente, era usato per le travature di case e cattedrali, in ebanisteria per costruire mobili pregiati, e nei cantieri navali per la realizzazione delle cosiddetta ”opera viva,” ovvero la parte immersa del natante. Nei secoli sono decine le varietà di castagne selezionate dai coltivatori, in base all’uso che si intendeva fare con questi gustosi frutti. Mentre i “marroni” sono più grandi e più dolci, e la “pelle” interna non penetra nel frutto, la castagna, è per definizione la varietà più rustica e selvatica, con caratteristiche come la grandezza e il numero dei frutti all’interno del riccio, variabili, così come la sua asprezza al gusto, e la resa per albero. Chiamato “il pane dei poveri” il castagno con i suoi frutti ha sfamato intere generazioni, specialmente nella zona Apuana e in Garfagnana, dove la miseria era endemica. In Era moderna i castagneti italiani sono stati pesantemente danneggiati dall’azione di due “alieni,” importati nel nostro Paese per incuria. Il primo a fare danni è stato il Cancro Corticale del Castagno, malattia generata da un fungo parassita, seguita poi dal Cinipide del Castagno, un insetto che inocula le sue uva all’interno dei teneri ramoscelli e delle foglie, provocandone la morte. Oggi per fortuna con l’immissione di un insetto antagonista, i danni procurati da questo indesiderato ospite sembrano sotto controllo, tanto che la situazione di rimboschimento di nuovi impianti sembra possibile, anche se la diffusione del castagno non arriverà mai a quella di appena cento anni fa. L’ulivo, invece, è stato considerato per millenni il “più importante albero della terra,” Fortemente simbolico per molte religioni nate sulle sponde del Mediterraneo, tra cui l’Ebraismo e l’Islamismo, era considerato sacro anche dagli antichi romani, perché piantato da Minerva in persona. Secondo una leggenda della religione Cristiana, invece, l’ulivo  sarebbe arrivato dal Paradiso Terrestre, perché germogliato sulla tomba di Adamo. In realtà sembra provenire dalla famosa Mezzaluna Fertile mesopotamica, per cui conosciuto, e coltivato fin dalla preistoria. Con il suo frutto spremuto si ottiene l’olio di oliva, oggi base, e vanto, della dieta mediterranea, ma un tempo con scopi molto diversi. Usato per secoli come combustibile per lumi e lucerne, acquisì il nome di “olio lampante,” mentre, con l’aggiunta di resine profumate, fu usato come unguento per l’imbalsamazione dei cadaveri. I romani poi, trovarono il modo di adoperarlo anche per scopi militari, Messo all’interno di orci di terracotta, e incendiato tramite uno stoppino, veniva lanciato come proiettile di fuoco con le catapulte, mentre frizionato sul corpo serviva come isolante contro il freddo nelle gelide notti invernali, sotto le precarie tende degli accampamenti. I suoi frutti essiccati, o sotto salamoia, erano facilmente trasportabili dalle salmerie, spesso consumati anche durante la marcia, erano apprezzati per il loro grande apporto calorico, ideale per sostenere le estenuanti fatiche dei legionari. Non a caso dove una Legione s’insediava, subito venivano piantati ulivi, sia per ingraziarsi Minerva, dea della guerra, della saggezza, e della medicina, ma anche per futuri scopi alimentari. Con la caduta dell’Impero Romano, e le successive invasioni barbariche, la coltivazione dell’ulivo cessò quasi del tutto, così l’olio divenne merce rarissima, carissima, ma soprattutto quasi sconosciuta ai più. Solo nel basso medioevo, e nel Rinascimento, l’olivicoltura ebbe una timida ripresa soprattutto grazie ai Medici che ne rilanciarono fortemente la coltivazione in Toscana. In quel periodo però, l’olio di oliva era destinato soprattutto all’uso liturgico, mentre il consumo umano era riservato solo ai nobili, che lo consideravano quasi una spezia preziosa, soprattutto da donare come regalo prestigioso, perché molto costosa. I veneziani lo usavano come ingrediente principale, insieme a cenere di legno d’ulivo, per confezionare saponi, che poi esportavano in tutto il mondo allora conosciuto. Ma è a partile dall’800, che l’olio di oliva entra prepotentemente come ingrediente principale della cucina italiana. In Toscana e in Liguria, nascono i primi grandi marchi di olii industriali, che saranno visti come i veri ambasciatori del mangiar bene italiano nel mondo. Ma il disastro è dietro l’angolo. Nei primi anni cinquanta, l’olio di oliva “passa di moda” per seguire le indicazioni pseudo salutiste d’oltreoceano, dove si preferiscono condimenti  più “leggeri e salutari” come margarine strane e olii di semi. Per molti agricoltori che hanno investito milioni di lire nella piantagione di nuovi uliveti si prospetta l’ombra del fallimento. Ma per fortuna come tutte le mode, anche questa passa presto, e l’olio Extravergine d’olive Italiano, si riprende il titolo che gli aspetta di diritto; quello di re della cucina. Però dall’estero non arrivano solo le mode strane, ma anche patogeni molto più pericolosi. Uno di questi ha un nome strano Xylella Fastidiosa. E fastidiosa lo è davvero, perché provoca la morte dell’intera pianta di ulivo. In più l’avidità dell’uomo ha messo in moto un perverso mercato; quello della vendita degli alberi secolari. La Puglia possiede più di settanta milioni di ulivi, tra cui forse una decina di milioni sono ultracentenari. Ebbene per soddisfare la megalomania di qualche milionario annoiato, questi veri e propri monumenti viventi vengono espiantati, selvaggiamente e “artisticamente” capitozzati, e poi spediti a finire la loro esistenza secolare a vegetare tristemente in un fazzoletto di terra ben curato, all’interno di una aiuola in qualche ricco giardino del Nord Italia, o dell’ Europa. Ben triste destino per un patriarca secolare.

Mario Volpi 15.11.2020
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