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Sezione a cura di Mario Volpi
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T'amo pio bove

La civiltà animale
Spetta/Le Redazione

Nel prosegui della serie dedicata agli animali che più sono stati vicino all'uomo, un posto speciale aspetta di diritto al Bue. In una Società che si rispetti, i trasporti sono fondamentali, specialmente quelli "pesanti" costituiti in gran parte da beni di primaria importanza. Ebbene gli autocarri del tempo erano proprio i buoi, lenti, pesanti, ma dotati di una forza prodigiosa, e alcuni, distinti dalle corna tinte di rosso, dal carattere non proprio mansueto.
T'amo pio bove

Nulla, come la bella poesia di Giosuè Carducci “il bove” può descrivere, il carattere, e l’importanza di quest’animale nell’evoluzione dell’uomo attraverso i millenni. Vero simbolo di potenza, e pazienza mansueta, questo bovide che deriva dal preistorico toro selvatico Uro, ha rappresentato per secoli un fondamentale pilastro per la vita sociale, economica, e spirituale dell’uomo.
 
Già raffigurato nelle pitture rupestri dai nostri progenitori, che cercavano così di placare il suo spirito, che loro credevano di avevano offeso con la caccia, ma anche ricche di simbologie, che attestano che già in quell’Era, era stato elevato al rango di divinità protettrice della specie umana. Il bue è in sostanza un toro, che ha subito in giovane età la castrazione. Quest’operazione serviva prevalentemente a limitarne l’aggressività, e a impedire che nel periodo degli amori, potesse lottare con altri esemplari per il diritto ad accoppiarsi. La privazione degli attributi maschili però, non incideva in alcun modo sulla sua forza, e prestanza fisica, anzi, con un’adeguata alimentazione, questa aumentava considerevolmente, facendoli diventare dei veri e propri mastodonti. L’unico neo del bove, era la sua lentezza, oltre al fatto che la sua conformazione fisica così enorme, mal si conciliava con l’uso di finimenti in cuoio. Non sappiamo in che epoca, né dove, apparve il primo giogo. Questo semplicissimo strumento in legno, è stata una delle invenzioni più geniali del genere umano. Permetteva di accoppiare, e sfruttare in modo molto efficace, la forza di due buoi appaiati, che si muovevano e ubbidivano ai comandi dell’uomo, come un solo animale. Il lavoro nei campi, e i trasporti, subirono con questo nuovo sistema un avanzamento tecnologico epocale, contribuendo in modo significativo a fare progredire l’uomo nella scala evolutiva. I buoi divennero talmente importanti, da essere, elevati agli onori degli altari, diventando divinità con fattezze bovine, chiamati con nomi diversi secondo le civiltà in cui questi culti nascevano. Anche il Cristianesimo non fu immune a questa pratica. Si ricordi il racconto narrato nella Bibbia, che mentre Mosè era sul monte Sinai a prendere le tavole della Legge, Aronne, suo fratello per placare il popolo che non aveva più punti di riferimento spirituale, fuse un vitello d’oro, facendone una nuova divinità. Sempre nello stesso libro sacro, si narra che l’Arca dell’Alleanza era posta su di un carro trainato da buoi. Il bue poi, è il simbolo del Vangelo di Luca. In molte chiese e basiliche, vi sono teste di bue in marmo, dal significato ancora avvolto nel mistero. Alcuni studiosi pensano che queste raffigurazioni, siano una specie di omaggio degli antichi costruttori, verso quest’animale, perché, senza il suo contributo fondamentale, la chiesa, o la basilica, non si sarebbe potuta costruire, ma per adesso sono solo ipotesi. La sua importanza economica, ha fatto del bue, per secoli, il candidato perfetto per i “sacrifici” alle divinità, che si sono avvicendate nella millenaria storia dell’uomo. Sacrificare un toro, o un bue, in quei tempi, equivaleva a privarsi davvero di un sostentamento importantissimo per la sopravvivenza dell’individuo. Ecco perché gli antichi pensavano che maggiore fosse il numero, e la qualità degli animali uccisi, e maggiore sarebbe stata la benevolenza degli dei. Si pensi che la parola “ecatombe,” significa proprio il sacrificio di cento buoi, presso gli antichi greci. Essendo un semidio, il toro, non poteva che dimorare in cielo, ecco che gli uomini antichi, vollero riconoscere in un ammasso di stelle le sue fattezze stilizzate, chiamarono così Toro una costellazione. Quest’animale era, a quei tempi, tanto importante, da essere considerato, sempre in coppia, una vera e propria unità di misura del valore. Esempio: ” questa casa vale dieci paia di buoi”, oppure “quel tizio è molto ricco possiede quaranta paia di buoi” e così via. Anche nella Bibbia quest’argomento è documentato, affermando che “ Giobbe, possedeva cinquecento paia di buoi”.
 
Per Carrara, il bue è stato per quasi due millenni, la vera forza trainante, economicamente, ma soprattutto nel senso letterale della parola. In poche località nel mondo, il bue è stato fondamentale per lo sviluppo socio-economico, come nella cittadina Apuana, capitale mondiale, dell’estrazione e lavorazione del marmo. Indispensabile per il trasporto dei giganteschi, e pesantissimi blocchi di marmo, dalle cave a monte, verso il mare, nel corso dei secoli, le genti carraresi hanno affinato al massimo, sia la tecnologia dei carri, sia la selezione della razza dei buoi, rendendoli adatti al duro lavoro in ambienti estremi, ma soprattutto a cibarsi di erba di bassa qualità, chiamata il dialetto “paler” di cui le Alpi Apuane sono ricche. Proprio come il cugino Bufalo, anche al bue nostrano l’acquitrino non faceva paura, per cui si trovava a suo agio a lavorare delle zone umide della Piana di Luni, come nella sconfinata Maremma toscana. Ancora oggi, se pure in rovina, sono visibili le antiche stalle della Tenuta di Marinella, dove erano alloggiate decine di paia di buoi, necessarie per il lavoro di bonifica di quegli antichi terreni paludosi, trasformati, grazie al loro duro lavoro, in fertili campi del magnate carrarese Carlo Fabbricotti, a meta dell’ottocento. I buoi erano ancora presenti per i lavori agricoli, fino agli anni 50, molto rustici, erano tenuti in semplici recinti o addirittura allo stato semibrado. Talmente “ruvidi” da non sentire la frusta, sostituita dal terribile pungolo, e guidati da delle speciali tenaglie fissate alle narici, nella nostra città si era usi attaccare in fila, fino a trentasette paia di buoi, come successe per il trasporto dell’obelisco denominato “il monolite” verso Roma. Del bue, come del maiale, non si buttava via nulla, oltre ovviamente alla pelle, erano molteplici gli usi che si facevano con le sue parti. Nei miei ricordi di bambino, un posto speciale è riservato alle “frittelle di bue” come le chiamavamo noi bimbi. Nel periodo primaverile, tempo adatto per la castrazione dei giovani tori, i macelli nostrani, si arricchivano delle gustose”palle di toro” a un prezzo accessibile. La mamma dopo averle sbollentate per togliere la prima pelle, le tagliava a medaglioni, e le friggeva, erano una vera delizia. Anche le gigantesche corna erano ricercate, per ricavarvi preziosi manici per utensili di pregiata fattura. Con il suo pene essiccato e ritorto si costruivano delle ottime fruste da carrettiere, quasi eterne, ma soprattutto, eccellenti per ottenere degli “schiocchi” perfetti. Perfino le sue deiezioni erano utilizzate. Sciolte in acqua si otteneva una specie di cemento per impermeabilizzare l’aia, prima di porvi il grano per la battitura, o il granoturco a seccare al sole.
 
Oggi, i servigi del bue, non servono più, e lui non esce più dalla stalla, tanto che molti bambini non l’hanno mai visto, alcune coppie sono utilizzate per sagre e feste paesane, anche queste ormai in forte declino. Così, questo bovino, per millenni vero e proprio protagonista della storia dell’uomo, ha finito la sua storia gloriosa … Come anonima bistecca.
 
 
Mario Volpi
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