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sulla via della lana

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Si dice che l'economia globale è salutare per l'umanità! Ma è davvero cosi?

I bisogni primari della razza umana sono due, trovare il cibo, e proteggersi dalla intemperie. L’uomo delle caverne, aveva cercato di soddisfare queste due necessità, con la caccia, e coprendosi con la pelle delle sue prede. Con l’evoluzione, nel corso dei millenni, capì che era più conveniente usare il pelo degli animali senza ucciderli, per avere la possibilità di sfruttarne i vantaggi più a lungo. Fu certamente l’Era medievale dove, l’uso e la lavorazione della lana di pecora ebbe il suo momento di massimo fulgore. Il vello di questo ovino era talmente prezioso e importante da essere accettato come pagamento per i vari Banni, e Livelli, le odiose, e spesso ingiuste tasse, emesse dal Clero e dai regnanti, e dai loro Vassalli, che al tempo affliggevano, non solo la bassa plebe, ma anche Valvassori, e Valvassini. Vi sono documenti che attestano che la razza ovina più frequente nell’alta Toscana in età medioevale, fosse la Bianca Garfagnina, oggi purtroppo in via di estinzione. La lana più era candida, e più era considerata pregiata, perché usata per la realizzazione di capi di lusso, destinati alla popolazione ricca del tempo. Era presente anche le razza Massese, che per la sua rusticità, era chiamata “la mucca dei poveri,” perché dava latte, carne e lana, accontentandosi del magro e poco nutriente foraggio, che era reperibile sulle erte colline che caratterizzano i primi contrafforti dell’Appenino, Tosco-Emiliano. Il suo vello nero però, era considerato poco pregiato, e l’uso principale era come imbottitura per materassi dei ricchi, e per la produzione del feltro, un tessuto molto usato nel medioevo. Firenze, era la capitale dell’Arte della Lana, ma l’intera Toscana, con decine di centri minori, era considerata in Era medievale, una vera e propria “Via della Lana,” per il gran numero delle manifatture presenti, e l’alta professionalità che i “lanaioli toscani,” avevano raggiunto. L’Italia medievale era anche leader, nella fabbricazione del feltro, usato per secoli come unico tessuto impermeabile disponibile. L’importanza dell’industria del feltro è supportata anche dalle numerose raffigurazioni di pellegrini e viandanti sulla via Francigena, con il capo coperto dal Petaso, un cappello a larghe tese in feltro, adatto per proteggere sia dal sole, che dalla pioggia. Non a caso, da questa tradizione manifatturiera secolare, nacque la più famosa fabbrica di cappelli del mondo; la Borsalino di Alessandria. Questa supremazia dell’Italia nell’industria della lana però, stava per finire. Nel corso di ibridazioni durate quasi tre secoli, la Spagna medievale, riuscì ad ottenere una “super pecora.”  Animale di grossa taglia, era capace di produrre una grande quantità di lana, di altissima qualità; la razza Merino. Questa ibridazione ovina in poco tempo soppiantò tutte le altre razze, cosa che portò alcune di queste sulla soglia dell’estinzione. Anche ai giorni nostri, il vello delle pecore nostrali, non ha mercato, e i nostri pastori, oltre a sobbarcarsi il costo della tosatura, devo smaltire la lana come “rifiuto speciale,” con aggravi finanziari non da poco. A pensare che l’uso artigianale della lana di pecora, nel territorio Apuano, e sopravvissuto fino agli inizi degli anni sessanta. Nelle zone rurali, già nel mese di marzo, si prendevano accordi con il pastore, prenotando il quantitativo di lana desiderato, o già “pulita,” o “com al veniv dal parol” (come veniva dai paiolo,) un modo di dire che stava a significare che si prendeva il vello appena tosato, con tutta la sporcizia che conteneva, ovviamente a un costo inferiore. Al tempo erano presenti anche una buona quantità di pecore di razza Sarda che avevano il vello bianco. La lana di queste ultime, era considerata di bassa qualità, ma molto tenace, quindi perfetta per confezionare calzettoni da cavatore, rigenerare quelli usati con gli “scapin,” e soprattutto tessere i tappeti “scendiletto,” immancabili nelle fredde stanze da letto del tempo. La lavorazione era assai complessa e almeno per la prima parte di essa, impegnava tutte le vicine che si aiutavano l’una con l’altra. La lana “vergine” era messa a bollire in un grosso bidone della benzina tagliato a metà. Questo trattamento toglieva le impurità, ma soprattutto la sterilizzava da qualsiasi parassita vi fosse annidato. Quindi era stesa sull’aia al sole, avendo cura di adagiarla su un grosso telo. Quando era asciutta le donne provvedevano a “scioglierla,” ossia facevano una rozza cardatura fatta a mano, quindi entravano in azione le due o tre nonne che ancora possedevano, e sapevano usare, fuso e arcolaio. Mi ricordo che restavo incantato a vedere la maestria di queste donne che mentre chiacchieravano con le altre, con un magistrale giro del pollice e l’indice imprimevano al fuso una rotazione perfetta che trasformava un’impalpabile ammasso di lana, in un filo, prontamente avvolto sull’arcolaio. Alcune donne sapevano anche “tingere,” la lana, usando erbe selvatiche, come la ginestra, o la robbia. La lana così colorata serviva per fare mantelline, sciarpe o cappelli, per noi “piccoli.” L’avvento della lana industriale in gomitoli, nella metà degli anni sessanta, interruppe queste lavorazioni, ma non i lavori a maglia con i classici ferri, o l’uncinetto, che sopravvissero ancora per decenni. Oggi purtroppo, questa mitica Via della Lana, toscana sembra essersi interrotta, Solo la lana importata,  proveniente dalle merinos ha mercato, ed è usata per confezionare coperte termiche, o giacche a vento di pregio. Questo ha portato a una penalizzazione commerciale nell’allevamento degli ovini, dove solo il latte, è considerato utile, mentre la lana, e in Italia anche la carne, se si esclude qualche agnello nel periodo Pasquale, sono considerati come “scarti,” di produzione, e quindi anziché fare reddito, sono classificati come spese. Un ben triste destino per questa candida materia, che per secoli era considerata vitale per la sopravvivenza umana.
Mario Volpi 19.06.21
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