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Sezione a cura di Mario Volpi
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L’inestin

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Purtroppo oggi le nuovissime generazioni credono che la frutta nasca nel supermercato, ignorando che è grazie ai nostri avi, se oggi possiamo ancora gustare una mela.

(l’innestatore)
Fra i mestieri antichi completamente scomparsi, almeno a livello artigianale, c’è sicuramente quello dell’innestatore. Quest’importante figura professionale, era basilare in una Società prevalentemente agricola com’era ancora l’Italia fin quasi alla fine del secolo scorso. Considerato a tutti gli effetti uno “specialista,” svolgeva la sua attività pagato a cottimo, quando operava in grandi vigneti o frutteti, ossia prendeva un tanto a ogni innesto effettuato. Il compenso teneva conto anche del costo del “materiale di consumo” adoperato, come rafia, cera, e marze, se fosse da considerare a carico suo, o del padrone del fondo. Nei primi anni cinquanta, a causa della guerra, molti frutteti e vigneti erano stati abbandonati per anni, e ora si cercava di porre rimedio a quel vero e proprio sfacelo agricolo, con la piantumazione di nuove piante, e nuove varietà. Il terribile afide Fillossera, aveva quasi totalmente distrutto le viti in tutta Europa, l’unica arma contro il suo attacco, era quella di piantare viti di “varietà americane,” immuni al parassita, e poi su di esse innestare le speci autoctone italiane. Il lavoro era davvero immane, ma la scelta per la maggior parte dei coltivatori era obbligata, eseguire nuove piantumazioni, o cambiare mestiere. Nella zona Apuana, anche i castagneti furono interessati a questa vera e propria “campagna d’innesti.” Sui selvatici nati spontaneamente duranti i lunghi anni di abbandono furono innestate varietà di castagne ottime per la farina, o per il consumo da intere, come la Carpanese, la Bresciana, o la Rossola. Io da bambino ebbi modo di conoscere molto bene uno di questi innestatori. Si chiamava Vincè, e abitava in una casupola a pochi passa da casa mia. Era già molto anziano, o almeno a me pareva tale. Alto e allampanato, aveva un aspetto arcigno, dovuto anche alla barba brizzolata non curata, e il sigaro toscano sempre in bocca. L’inseparabile “pepelina,”(basco di feltro) che un tempo doveva essere blu, gli copriva un’incipiente calvizie, che però si manifestava chiaramente con i pochi capelli di un bianco giallastro che gli coprivano a stento le basette. In contrasto con l’aspetto severo e trasandato, Vincè era abbastanza colto per l’epoca, avendo frequentato fino alla “sesta elementare,” sapendo per questo, leggere e scrivere, ma soprattutto far di conto, cosa che piaceva poco ai proprietari dei terreni dove era chiamato a svolgere il suo lavoro, abituati com’erano a trattare con persone ignoranti e analfabete, facili da gabbare sul compenso. Spesso vedevo Vincè all’opera nel vigneto della fattoria che frequentavo abitualmente, e devo dire che a distanza di oltre sessanta anni, ricordo ancora perfettamente le sue mosse. Si presentava in bicicletta, che aveva un portapacchi sopra il parafango posteriore, dove era fissato uno sgabello a un solo piede, a tracolla portava una borsa di pelle di pecora, piena delle marze che doveva innestare, e di un grosso fascio di rafia, mentre su un apposito gancio dalla parte posteriore della cintura vi era fissato un corno di vacca, da cui sporgeva una pietra da affilatura. Aveva poi una specie di panciotto sempre in pelle, con due grosse tasche sul davanti in cui erano riposte una grossa forbice agricola, un paio di affilatissimi coltelli a serramanico, e l’immancabile scatola di sigari toscani con i fiammiferi. Quando era nel vigneto Vincè tramite una cinghia, si fissava al sedere lo sgabello, che gli permetteva di stare seduto, per eseguire la delicata operazione d’innesto, in modo più fermo e sicuro. Con le forbici potava la vite che il fattore aveva segnato a una certa altezza da terra, poi, con il coltello, dopo una rapida passata sulla pietra, praticava un’incisione che spaccava in due la vite. Dopo aver preso dalla borsa una marza, tagliava attentamente un capo della stessa a zeppa, poi, stando ben attento che le due cortecce coincidessero perfettamente, la infilava nello spacco fatto in precedenza. Con un filo di rafia legava strettamente il tutto, potava la marza in eccesso lasciando solo due occhi, per poi passare alla prossima vite. Quando tutti gli innesti erano finiti, veniva la fase che a me piaceva di più. Un grosso fornelletto a spirito era acceso, e posto nei pressi del filare, su di esso era messo una piccola pentola d’alluminio, con all’interno delle saponette di una specie di cera verdastra. Quando questa si era sciolta, e diventata abbastanza liquida, Vincè con un pennello ricopriva completamente gli innesti. Vincè era chiamato anche a potare alberi da frutto, e se l’albero era di una varietà pregiata o particolarmente fruttifera, molti dei rami di risulta li prendeva e li portava a casa, destinati a diventare delle future marze. In cortile aveva costruito una grossa vasca alta pochi centimetri con l’acqua che tramite una cannuccia che gocciolava, era quasi corrente, dove v’immergeva le varie marze, per mantenerle vitali. Era anche molto bravo a preparare delle “talee” dai rami di alberi da frutto. Il fattore gli indicava l’albero che voleva riprodurre, e lui dopo aver scelto due o tre rami giudicati idonei, dapprima li spuntava, poi nel punto che giudicava migliore, levava ”un’occhio,” e un pezzo di corteccia, poi prendeva della terra e la “incartava” in un pezzo di  juta a mo’ di caramella sul ramo, legando il tutto strettamente con la rafia. In primavera il ramo aveva messo radici, e si poteva tagliare dall’albero madre e piantarlo in piena terra. Era anche in grado di innestare sulla stessa pianta altre varietà di frutta, ad esempio su un albicocco poteva innestare due diversi tipi di susine. Era singolare vedere sullo stesso albero fiori, e frutti diversi. Oggi gli innesti sono effettuati a macchina a tavolino, e sono tecnologicamente molto più avanzati e sicuri, impossibili da effettuare a quel tempo. Ora le viti, per esempio, sono quasi tutte innestate con il più tecnologico e meccanicamente sicuro innesto a Omega, protetti dai parassiti con resine sintetiche che un tempo non esistevano. Anche l’orticultura ha compiuto un salto tecnologico importante, che ha permesso di rendere economicamente convenienti gli innesti su piante annuali come pomodori, melanzane, e peperoni. Però, se oggi il nostro patrimonio ortofrutticolo è così vario e di alta qualità, in gran parte è dovuto alla dedizione e professionalità dei vari Vincè, che si sono succeduti nei secoli, armati solo di un coltello e di tanta passione.
Mario Volpi 16.11.21
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