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Sezione a cura di Mario Volpi
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Il sangue della terra

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Oggi si apprezza sempre più, il "sangue della terra" come io chiamo uno degli alimenti che ha accompagnato nei millenni l'evoluzione umana; il vino. Così prezioso che è spesso adulterato per ottenere facili guadagni, colpendo spesso in modo gravissimo sia la nostra salute, che l'economia.

Purtroppo con scadenza periodica scoppia qualche scandalo alimentare. Il bersaglio è sempre lo stesso, la sofisticazione del vino.
Criminali senza scrupoli, hanno capito che è molto facile fare questo tipo di frode alimentare, perché è impossibile, se non a fronte di complicate analisi chimiche mirate, scoprirla. In più, l’alto guadagno, invoglia sempre più questi delinquenti a sofisticare questo nobile alimento. Quando scoperta, provoca danni gravissimi sulla nostra immagine all’estero, principale sbocco della nostra produzione, costringendo i produttori onesti, a compiere veri e propri miracoli per salvare le quote di mercato guadagnate in anni di duro lavoro.
In Italia la viticoltura ha tradizioni millenarie, anche se nei secoli sono molto cambiati i metodi di coltivazione, e la varietà dei vitigni. Le cronache antiche ci narrano d’interi vigneti andati completamenti distrutti a causa di malattie della vite, un tempo, sconosciute e incurabili, come la Peronospora, o il Malbianco. Con la rassegnazione tipica dei contadini, si cercava di ricominciare da capo la coltivazione, cambiando varietà di vitigno. Nei millenni, questa tenacia, ha dato origine a una vera e propria selezione naturale, contribuendo inconsapevolmente, a creare vitigni autoctoni resistenti alle malattie, e ben adattati al tipo di clima, e di terreno, del luogo dove avveniva la coltivazione. Questo enorme patrimonio genetico, è stato valorizzato ancora di più negli ultimi decenni, con la messa a punto di nuovi sistemi di coltivazione, e soprattutto di vinificazione, dando origine a un prodotto finale di altissima qualità, e di conseguenza, migliorando enormemente anche le proprietà organolettiche. La scienza ha dato un enorme contributo, formando enologi, e agronomi, che studiando la natura dei problemi atavici e sconosciuti, che si presentavano durante le varie fasi della coltivazione e vinificazione, li risolvevano scientificamente, e non con la superstizione e le credenze dei contadini di un tempo.
Si è cambiato in modo radicale anche il metodo di produrre uva da vino. Un tempo, a causa dell’imperante miseria della gente, si preferiva la quantità alla qualità. Questo si otteneva facendo pochissime potature, costringendo la vite a produrre una grande quantità di uva. Il vino così ottenuto però aveva basso tenore zuccherino, e di conseguenza una bassa gradazione alcolica. Ciò provocava gusti poco piacevoli come il famosissimo dialettale “spunto, ” paragonabile a un vago sentore di aceto. Oggi sia le potature importanti, che la “spogliatura, ” ossia l’eliminazione di una parte di uva in formazione, da origine a una produzione minore, ma un altissimo livello di qualità, che poi il sapiente lavoro degli enologi porta all’eccellenza, con vini che sono famosi in tutto il mondo. Non ha caso, già da molti anni, le “bollicine” italiane, hanno sopravanzato di molto, nelle vendite sia interne, che estere, i famosi champagne dei nostri cugini d’oltralpe. Un tempo purtroppo non era così, e questo non per scarsa volontà dei contadini, ma a causa delle misere condizioni economiche degli stessi, che dovevano dividere, molto spesso non in maniera equa, il misero raccolto con il padrone del podere. Io ho avuto la fortuna di vivere la mia infanzia e la prima parte dell’adolescenza, in una fattoria, e ho ancora impresso nella memoria come avveniva la viticoltura sessanta anni fa, nei nostri campi e nelle nostre cantine.
Sicuramente, dopo il marmo, la coltivazione della vite era l’attività principale delle genti carraresi. Si può tranquillamente affermare che, partendo da poche centinaia di metri dalla battigia, e salendo fino ai primi contrafforti delle colline, era tutto un immenso vigneto. Nelle zone pianeggianti la coltivazione avveniva a pergolato, metodo che consentiva di coltivare al disotto degli stessi, mentre in quelle collinari, visto la mancanza di spazio, era preferito il metodo a filare. Ovviamente i vari appezzamenti non erano tutti del medesimo proprietario, e salvo pochissimi casi in cui la coltivazione era effettuata in modo autonomo, negli altri, era presente un grosso indotto di “omi ‘n zornata” (uomini a giornata) che ruotava attorno ad essi. Si cominciava a novembre-dicembre, con la potatura, e la messa a dimora dei nuovi vitigni, oltre naturalmente alla concimazione, e “sbarbatura, ” delle piante adulte, operazione questa molto faticosa, che richiedeva numerosa manodopera. Questa era un’operazione dettata più dalla tradizione che dall’effettivo bisogno della pianta. Consisteva nello scavare per tutta la lunghezza del filare, attorno al fusto della vite, una fossa profonda, una trentina di centimetri. Quindi con il coltello da innesti, si tagliavano via tutte le radici superficiali, perché si credeva che ”mangiassero la sostanza, quindi, portato a dorso di mulo dal piano, si metteva del letame nella fossa, e si ricopriva. Ripetere l’operazione a ogni “piana” (terrazza con muretti a secco) di tutto il vigneto, non era impresa da poco. La fossa era ancora più profonda per la messa a dimora dei nuovi vitigni, di solito di vite selvatica, perché ritenuti più resistenti, e innestati con il metodo a zeppa l’anno seguente. Per il controllo delle malattie si usava soltanto verderame, mescolato con un pò di calce, e zolfo, somministrati con macchine a spalla.
Il momento più divertente, e anche più goloso, per noi bambini, era naturalmente la vendemmia, dove mangiavamo uva dolce a crepapelle, e la successiva pigiatura dell’uva che avveniva con i piedi. Quando dentro il gigantesco, e centenario tino di legno, l’uva aveva raggiunto un discreto livello, entravamo in azione noi ragazzi. Qualcuno in mutande, altri in calzoni corti, dopo esserci calati all’interno, si cominciava a pestare l’uva, cantando, per seguire il tempo, una melensa e insulsa filastrocca. Quando il fattore giudicava che l’uva fosse abbastanza schiacciata, era messa in altre botti, dove sarebbe avvenuta la fermentazione, e noi ricominciavamo da capo con un’altra partita nel medesimo tino, questo secondo le annate durava diversi giorni.
Altro momento importante era la svinatura; questo aveva la sollenità di un rito sacro. Il fattore-mezzadro, davanti al padrone, e a gran parte della propria famiglia, col martello toglieva un piccolo tappo sul fianco della botte, e con un bicchiere raccoglieva un poco di vino. Con mosse lente e solenni, quasi fosse il Santo Graal, lo metteva controluce, per giudicarne il colore, quindi, passava a sentirne il profumo passandolo sotto il naso, e poi, stando ben attento a non aver mangiato nulla da almeno un’ora, per non “guastare il senso del gusto” ne metteva un sorso in bocca, muovendo delicatamente le labbra per assaporarlo al meglio. La stessa procedura era ripetuta dal padrone, quindi, se il giudizio era positivo, per festeggiare, si poteva a prelevarne un paio di fiaschi da bere dopo cena, gustando le “mondine” (caldarroste) che sarebbero state cotte sul camino, e generosamente insaporite con lo stesso vino novello, (operazione che oggi sarebbe da denuncia) spruzzatogli sopra con la bocca dalla moglie del fattore.
Il vino era talmente prezioso, che le vinacce erano torchiate fino a raggiungere la consistenza del legno. Il prodotto che se ne ricavava era chiamato in dialetto “strizzo, ” ed era un vino di seconda qualità, ma non l’ultimo, perché le vinacce, ormai quasi prive di umidità, venivano rimesse in botte e con l’aggiunta d’acqua, si facevano rifermentare, per ricavarne “la vinella,” un liquido infame da bere tutti i giorni. Non contenti, alcuni rimettevano questo simulacro di vinacce in un alambicco artigianale, e dopo avere aggiunto dell’acqua, le facevano bollire, per distillare un liquido, che si ostinavano a chiamare grappa.
Per molte religioni il vino era, ed è, un alimento sacro, attorno ad esso, sono nate un’infinità di leggende. A me, però, non essendo religioso, piace pensare che siccome è formato principalmente da raggi di sole, e da linfa vitale di una pianta, non sia altro, che …  il sangue della terra.

Mario Volpi 20.07.2020
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