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Sezione a cura di Mario Volpi
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Far la Camomila

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Oggi l' uso dell'alcool, soprattutto tra i giovani è una vera emergenza sociale, ma appena settanta anni fa serviva spesso a rendere meno grama la vita di milioni di italiani.

Nel primo dopoguerra in Italia, la mescita dei superalcoolici, era totalmente sconosciuta. Nelle cantine del tempo si vendeva vino, raramente marsala all’uovo o liscia. Solamente nelle “botteghe,”(negozi di alimentari) più rinomate si poteva comprare una bottiglia di “cognac,” in realtà l’italianissimo brandy Tre Stelle, fatto a Bologna. Questo però non voleva dire che l’alcool fosse totalmente sconosciuto o bandito dalle italiche genti, anzi! Prima di tutto bisogna dire che per secoli, i “regnati e i potenti” per fare cassa, hanno sempre tassato le merci, che erano al tempo indispensabili per la vita quotidiana, come il sale, o che servivano a renderla più piacevole, come il tabacco, o appunto l’alcool. I Savoia non fecero eccezione, perché, come recitava il Regio Decreto del 1870, la produzione di sostanze alcooliche era vietata, e se autorizzata era soggetta a tassazione, è implicava forti pene pecuniarie, e perfino l’arresto per chi trasgrediva a questa norma di legge. Nella Società ancora prevalentemente agricola del primo dopoguerra, questa legge, mantenuta in vigore anche dall’Italia Repubblicana, era fortemente odiata dalla popolazione, e regolarmente violata, ma lo si faceva solamente per bisogno, e ora andremo a spiegarne i motivi. La zona Apuana, prevalentemente collinare, era evocata alla coltivazione dell’ulivo, del castagno, e della vite. Quest’ultima, al tempo era coltivata privilegiando la quantità, a scapito della qualità del vino, che risultava spesso di bassa gradazione, quindi soggetto a prendere “lo spunto,” come si chiamava in dialetto il forte sentore di aceto tipico del vino di bassa qualità. Quando il vino diventava imbevibile, anziché buttarlo, lo si distillava per produrre la grappa. Ogni tanto capitava che Madre Natura fosse generosa, e concedesse ai poveri umani un’annata particolarmente abbondante di pere, mele o susine. Quando la frutta troppo matura cominciava a marcire, la si raccoglieva e si distillava producendo la “Vilmina,” come si chiamava in dialetto questo particolare distillato di frutta, evidente storpiatura derivata dal nome delle pere Williams. In un contesto dove regnava la miseria più nera, era indispensabile la conservazione, e lo stoccaggio dei prodotti quando abbondavano, oltre a cercare di ricavare il massimo profitto perfino dagli “scarti.” Per questo dopo la torchiatura, spesso si aggiungeva un po di vino inacidito alle vinacce, per farle rifermentare e poi distillarle. Per sfuggire a eventuali controlli della Guardia di Finanza, la distillazione avveniva di notte, o nelle piovose giornate novembrine, dove si credeva che l’eventuale odore della grappa, fosse lavato dalla pioggia. Per effettuare la distillazione ci si serviva di alambicchi e serpentine in rame, spesso tramandati da generazioni, e a tal proposito è divertente raccontare questo aneddoto. Nella fattoria dove sono cresciuto, ne esisteva uno gigantesco, o almeno a me pareva tale, e spesso era prestato alle fattorie vicine. A quei tempi non vi era altro mezzo di comunicazione se non quello di vedersi di persona, magari in cantina, e per la paura che qualcuno potesse ascoltare, e riferire, che si chiedeva lo strumento per distillare, avevano concordato di usare un codice, che oggi fa sorridere, ma che al tempo sembrava molto astuto. Chi voleva l’alambicco, diceva al proprietario, se poteva prestagli “’l cazarulin per far la camomila” (il tegamino per fare la camomilla.) Il Fattore quando distillava, non voleva che noi piccoli ci si avvicinasse, oggi, da adulto, ho capito che lo faceva per il timore, neppure troppo remoto, di un’esplosione, ma al tempo, credevo che non ci volesse per non svelare chissà quale segreto o mistero, così, andavo nel fienile, e dall’apertura tra i mattoni per l’areazione, lo vedevo lavorare assieme al figlio maggiore. Dopo aver messo il grosso contenitore pieno di vinacce sul fuoco, avvitava sulla sua sommità una lunga serpentina che poi immergeva nell’abbeveratoio delle mucche. Da questa, dopo un po’ cominciava a gocciolare un liquido incolore, che lui infiascava con precauzione. Era la “testa,” del distillato, composta dal micidiale Metanolo, tossico e estremamente volatile. Subito dopo, arrivava la grappa, il “cuore,” che poneva in un contenitore a parte, poi arrivava la “coda” composta da vapore acqueo a basso tenore di alcool. La saggezza contadina, e l’indigenza, avevano insegnato a utilizzare perfino le parti di scarto, come il velenoso Metanolo, che serviva per avviare il fuoco nel forno, e la carbonella nel fornello di cucina, o il prodotto di coda usato per massaggi sulle contratture, o traumi muscolari, contro il prurito da punture d’insetto, e per eliminare i scarafaggi dagli ambienti domestici. Spesso la grappa era ripassata, una seconda volta, per affinarla e togliere sapori o odori poco graditi. Alvise, il fattore, era un vero esperto nella distillazione, e arrivava a distillare anche l’acqua del pozzo, per poterla aggiungerla alla grappa per farle raggiungere la giusta gradazione, senza che questa causasse sapori sgraditi. Quando faceva la grappa distillava anche “‘l spirit.” Mescolava in una tinozza zucchero, farina di grano, e lievito madre, e lo lasciava fermentare per giorni per poi distillarlo, e ricavarne diversi bottiglioni di “spirit” com’era chiamato in dialetto l’alcool puro, utilizzato per conservare uva, albicocche, ciliegie marasche, pesche, prugne, e perfino le castagne. Vi posso assicurare, che magari a causa del ricordo, ma le castagne “sot spirit” gustate a Pasqua, erano una vera leccornia, cose da “ricchi,” anche per noi piccoli, che di ricco al tempo, avevamo solo la fantasia.
Mario Volpi 2.4.22
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