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Sezione a cura di Mario Volpi
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Tecnologia vs Natura

Attualità
Spetta/Le Redazione
Oggi, tutti noi siamo portati a credere che la tecnologia di cui facciamo ampio uso anche nelle attività ludiche, possa vincere in ogni momento, e facilmente le leggi della Natura. Ma sarà davvero così?
Era ancora buio, sulle cime dell’appenino toscano. Un rumore in lontananza, ruppe il silenzio di quella gelida notte di novembre. Poi due fari squarciarono con sciabolate di luce le tenebre, mentre divenne sempre più forte il catarroso rombo di un motore, spinto al massimo dei giri, per vincere quell’impossibile salita di quella mulattiera improvvisata, piena di fango e buche. Era una sgangherata jeep, che aveva visto tempi migliori, ora adibita al trasporto dei canai, e degli scaccini, della “Murtetto 1,” come si chiamava la squadra di cinghialai del paese di Murtetto. Gli spartani sedili posteriori, erano stati sacrificati per far posto a due cassoni di legno che ospitavano ognuno una coppia di cani. Virgilio e Oreste, erano gli orgogliosi proprietari di quella muta di segugi italiani che tutte le altre squadre di cinghialai gli invidiavano. In silenzio Francè, che tutti consideravano il miglior scaccino della Toscana, dopo essersi alzato il cappuccio del giubbotto termico ad alta visibilità che indossava, aiutò i due uomini a far scendere i cani, legandoli a un vicino albero, poi dopo averli muniti di collare GPS, gli sistemarono i leggerissimi ma resistenti corpetti protettivi anti zanna in kevlar, erano pronti. Nel sottostante canale, Beppe, il capo caccia, aiutandosi con una torcia ai LED schermata, stava seminando gli uomini alle poste come faceva Pollicino con le briciole di pane. I tredici uomini procedevano nel massimo silenzio, in fila indiana, senza fumare, e soprattutto stando ben attenti a non fare rumore calpestando rami secchi o fronde. In pochi minuti l’intero canalone in fondo al monte era punteggiato dagli sgargianti gilet arancioni che risaltavano come fari, tra le spoglie fronde del sottobosco, ma invisibili agli occhi del cinghiale. Intanto, le tenebre lottavano strenuamente per non lasciare campo libero alla luce del giorno, che già stava schiarendo la cima del monte Sagro. Il freddo era intenso, e le pareti del canalone erano ricoperte da una gelida e delicata trapunta di ghiaccio. Virgì, Orè e Francè, si erano rifugiati all’interno della macchina in attesa che venisse giorno, approfittando di quel momento di pausa per consumare una frugale colazione composta di pane e salsiccia nostrale. Francè, dopo aver bevuto un sorso di caffè bollente versato dal termos elettrico collegato all’auto, disse, “oggi mi sento che sarà la volta buona!” “Speriamolo” rispose Virgì, “ormai è troppo tempo che il Nero ci frega!” Il Nero era un verro gigantesco, che loro tre avevano intravisto tre o quattro volte durante le battute precedenti. Quello che non potevano sapere era che questo Solengo, era, per una serie di circostanze fortuite, davvero speciale. Unico sopravvissuto di una cucciolata di appena tre individui, aveva potuto godere a sazietà del latte materno, crescendo sano e forte. Appena svezzato, la madre era stata uccisa da un branco di lupi, e lui non essendo stato accettato dal resto del branco, aveva imparato a cavarsela da solo in modo anomalo. Pur nutrendosi di vegetali, per una serie di circostanze era venuto spesso a contatto con carcasse di animali morti, ed essendo per sua natura un onnivoro, aveva imparato a cibarsi di carogne, ma anche di carne fresca a discapito di rane, topi o serpenti. L’apporto smodato di proteine lo aveva fatto diventare gigantesco, possente, e vigoroso. Pesava oltre 160 kg, con una testa enorme, pesantemente armata di zanne, di cui le due inferiori lunghe più di quindici centimetri, si auto affilavano continuamente sfregando su quelle superiori. Era nel pieno della forza e dell’età, e nella passata stagione riproduttiva, molti maschi portavano ancora le cicatrici delle sue violente sgrugnate, combattimenti vittoriosi che lo avevano premiato facendolo diventare padre di numerose cucciolate. In più la Natura forse per un eccesso di melanina, gli aveva donato un pelo totalmente nero, che nella penombra del sottobosco lo rendeva pressoché invisibile. Questa notte, dopo essersi saziato a poca distanza da lì con la carogna di un capriolo, il Nero si era acciambellato nella sua buca preferita sotto una fittissima macchia di biancospino. Le spine della pianta per lui non erano un problema, protetto com’era da quella vera e propria corazza di setole e sottopelo. La luce dell’alba, anche se a fatica, cancellava gradatamente il buio della notte, e già s’intravedevano nella bruma mattutina, le scheletriche cime dei faggi, che pareva volessero strapparla per svettare verso il cielo. “E’ ora” disse Virgì. Scesero dalla macchina, indossarono i gambali in cordura antistrappo, e tirarono fuori dalle custodie le corte doppiette da cinghiale cal. 12, di cui tutti e tre erano armati, poi preso al guinzaglio i cani, si distanziarono di circa cento metri lì uni dagli altri. Orè accese la radiolina VHF e dopo aver premuto il tasto di chiamata disse” occhio alle poste, partiamo!” Dopo un attimo Beppe rispose “Roger!” poi con il passaparola avvisò gli uomini. Cercando di fare il minor rumore possibile, i cacciatori caricarono silenziosamente le micidiali carabine semiautomatiche in cal. 308 di cui erano armati, e rimasero in attesa. Orè e Virgì liberarono i cani. Zury, un segugio maschio italiano di tre anni, era il capo muta e conosceva quei boschi a menadito per le innumerevoli volte in cui vi aveva cacciato, seguito da Dik e gli altri due si lanciò naso a terra alla ricerca di quell’odore che ben conosceva. Uno dei cani più giovani, Toby in preda all’eccitazione si lasciò sfuggire un guaito. L’udito sensibilissimo del Nero lo sentì, e subito scattò in piedi. Questo fu un errore, perché il suo afrore arrivò alle narici di Zury, che latrando partì di gran carriera, seguito dall’intera muta in piena canizza. ”Dai, dai” li incitava Virgì, seguito da Orè che urlava “attenti alle poste!” Intanto Francè, si precipitava alla sua desta scendendo verso il basso urlando ”vai, vai” e sparando in aria, per evitare che il cinghiale tagliasse il monte diagonalmente, anziché dirigersi verso le poste piazzate nel canalone. Il Nero, dapprima aveva tentato di difendersi dagli attacchi della muta, caricandoli e sgrugnando violentemente, ma i cani si ritraevano di colpo per poi tornare all’attacco, dopo un’ultima inutile carica, partì verso il canalone seguito dalla muta latrante. Il cinghiale volava letteralmente lungo la china del monte, forando macchie spinose, e cespugli, come fossero paraventi di carta, il rumore che faceva era paragonabile a quello di un autocarro quando scarica con la ribalta un carico di mattoni. Romeo era considerato il “cecchino,” della squadra, e sotto i suoi colpi erano già diventati salsicce sei cinghiali. Il Nero si stava dirigendo proprio verso la sua posta, era spacciato! Sentendo i colpi dello scaccino, le urla e la canizza, Romeo con calma olimpica, dopo aver acceso l’ottica a Punto Rosso, aveva imbracciato la carabina, puntandola verso il piccolo guado seminascosto nella fitta macchia dove immaginava sarebbe passato l’animale, e ora aspettava con calma il bersaglio. Il cinghiale arrivò alla velocità di un treno merci, lungo quasi due metri si distendeva completamente nella corsa, filando a oltre quaranta all’ora, Romeo lo vide, e il punto rosso si spostò di colpo nel mezzo della fronte del gigante che stava arrivando. Fu un secondo, proprio nell’attimo in cui Romeo premeva il grilletto, il Nero scartò improvvisamente di lato per caricare Zury che gli correva accanto. La grossa palla blindata a naso molle, passò miagolando a un centimetro dalla testa del colosso, per poi disintegrarsi con uno sbuffo di polvere su una roccia affiorante. Il bestione si arrestò di colpo, si piegò di lato e tornò al coperto nel bosco, per poi fuggire sulla sinistra sguarnita. Anche questa volta il Nero, con un pizzico di fortuna, li aveva fregati! La Natura, ancora una volta aveva vinto contro la tecnologia.
Mario Volpi 19.2.22
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