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Sezione a cura di Mario Volpi
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Il cibo della Terra

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Spesso, quando racconto alle nuove generazioni, com'era la vita appena sessanta anni fa, mi guardano strano, pensando forse che sono già preda del Morbo di Alzheimer. Purtroppo invece è la pura verità, anche se oggi, per fortuna, sembra una storia inventata.

Come molte delle più importanti scoperte umane, forse anche questa è avvenuta per caso, migliaia di anni fa. Forse nel Paleolitico, uno dei primi agricoltori-allevatori, notò che la vegetazione cresceva più rigogliosa vicino ai luoghi dove erano soliti depositare le loro feci, le prime mandrie di animali addomesticati. Capì così l’importanza della concimazione. Tutti gli esseri viventi, presenti sulla Terra, hanno bisogno di “cibo” per vivere. Da perfetto chimico qual è, Madre Natura, ha stabilito che alla base di questo sistema ci debba essere il riciclaggio, ossia che lo “scarto” di ogni specie sia riutilizzato all’infinito, per creare nuova vita. Anche se a prima vista sembrano molto differenti tra loro, i diversi cibi consumati dalle differenti speci, compreso quella umana, chimicamente si differenziano pochissimo tra loro. E’ il mondo vegetale, quello che, da millenni, fornisce il maggior contributo alla nostra sopravvivenza. E proprio per questo, che quasi il 98% delle speci vegetali commestibili, sono coltivate. Da secoli gli agricoltori hanno usato per la concimazione dei campi le deiezioni, sia umane, che animali. Quest’esperienza millenaria ha insegnato loro, che non tutti i concimi sono uguali, ma soprattutto, che per essere usato, e portare un effettivo beneficio al terreno, il letame ha bisogno di essere maturo, ossia che i microorganismi al suo interno abbiano avuto il tempo per completare il “ciclo di riciclaggio” per renderlo digeribile alle piante. Anche se sembra inverosimile, una storia inventata, o retaggio di un lontano passato, posso assicurare che quello che andrò a raccontare, era prassi comune in Italia, fino alla fine degli anni sessanta. Nella maggior parte delle case di quei tempi, escluse ovviamente le grandi città, le fognature non esistevano, e il servizio igienico, era molto semplice. Era composto di un piccolo casotto, di solito nell’aia, o posto all’interno delle scale condominiali, con all’interno una specie di gradino di marmo rialzato, con un foro al centro, che si poteva coprire, con un tappo sempre di marmo, provvisto di manico. Qui dopo essersi accomodati alla “turca” si espletavano i bisogni corporali. E’ chiaro che il gabinetto serviva per tutti gli abitanti del borgo, spesso più di dieci famiglie, ed era sprovvisto di acqua corrente. La carta igienica era di la da venire, e si usavano i tutoli del granoturco, posti in un sacchetto attaccato con un chiodo alla parete. Il pozzo nero o bottino, era raccolto in una sottostante fossa, “a perdere” per il liquido, ma evidentemente il solido restava. Dopo un certo numero di mesi, sempre di notte, arrivava il bottinaio, per svuotare la fossa. Questo servizio era svolto prevalentemente da abitanti della vicina città di Massa, perché da sempre a vogatura agricola. Ma non era detto che il “prodotto” fosse sicuramente ritirato, prima ci si doveva assicurare che fosse pronto. Per fare questo il bottinaio, usava uno strumento artigianale molto semplice, di solito un barattolo della conserva di pomodoro vuoto da cinque litri, saldamente inchiodato su una lunga pertica di frassino, chiamato in dialetto, “pipa.” Prendeva un pò di bottino, lo versava in un bicchiere e … lo assaggiava! Avete letto bene, lo metteva proprio in bocca. Se era pronto, vi aggiungeva un pò d’acqua che aveva sul carretto a botte, e dopo una vigorosa mescolatura lo caricava, altrimenti se ne andava. Con questo poco profumato prodotto, si distillava anche una grappa, che a detta di molti, era sopraffina. Anche quello che oggi sembra un insulto “andare per merda,” era invece prassi quotidiana. Al tempo, il trasporto a Carrara, era quasi tutto a trazione animale, equina o bovina, questi animali lasciavano il loro, “ricordini” sulla pubblica via, che una schiera di ragazzini, si affrettavano a raccogliere e portare a casa, dove, mescolato con paglia e foglie secche, era utilizzato per la concimazione dell’orto. Lo “scarto corporale” così come viene dalla stalla, o direttamente dalla parte posteriore del donatore, non è buono per concimare, e questo per due motivi; il primo, l’alto contenuto di ammoniaca, e il secondo specialmente nei cavalli, per l’elevata presenza di spore, e semi di erbe infestanti non completamente digeriti, che contaminerebbero irrimediabilmente il campo. Così il letame si ammucchiava in un luogo specifico, di solito sul retro della stalla, si copriva con un grosso telo d’incerata, perché le piogge non lo dilavassero, e lasciato maturare per quasi un anno. Questo faceva si che il contenuto di azoto si abbassasse, e il calore della fermentazione uccidesse spore e larve nocive, oltre a bruciare i semi delle infestanti. Anche la Fattora, contribuiva alla concimazione del terreno. Il pollaio era di sua competenza, e lei di solito, delegava la sua gestione ai figli più grandicelli. Ogni due o tre mesi, si puliva a fondo lo strato di guano che i volatili depositavano all’interno della baracchetta dove andavano a dormire. Questo, per il suo alto potere fertilizzante, era considerato un vero e proprio tesoro, quasi una “droga” per le piante, ma come tale bisognava saperla usare per non fare danni. Infatti, l’alta concentrazione di ammoniaca, poteva facilmente “dopare” le piante, intossicandole fino a ucciderle. Si metteva quindi a “spegnere,” in un “bigoncio” (piccolo tino in legno) pieno d’acqua per due giorni. Il prodotto così ottenuto era miscelato nel rapporto di un secchio ogni due di acqua pura, e usato per concimare verdure a rapida crescita come zucchine, melanzane, peperoni, o le grosse zucche, vitali per la scorta alimentare per l’inverno. Il concime era così prezioso e importante che fino a qualche decennio fa, i contadini cinesi, che avevano la fortuna di avere il terreno confinante con strade importanti, realizzavano accoglienti gabinetti sul limitare del campo, con un cartello che augurava mille benedizioni divine, per il viandante che li usasse. Alla fine degli anni sessanta, con la rivoluzione industriale tutto è cambiato, e purtroppo non in meglio. L’industria lanciò sul mercato i “concimi chimici.” Pellettati in grani, erano molto pratici, poco costosi e non avevano cattivo odore, in più, erano molto efficaci, le piante, come ebbe a dire un agricoltore ad Avenza, “ad’en cussì bele, che al par’n finte” (sono così belle, che sembrano finte) ma da lì a poco la Natura così violentata, ci avrebbe presentato il conto. Questi prodotti erano ricchissimi delle tre principali sostanze utili alla crescita delle piante, Potassio, Azoto, Fosforo. I terreni trattati triplicavano la produzione, ma di pari passo, così sfruttati, diminuivano sempre di più la loro fertilità. Per ovviare a ciò, si aumentavano le dosi di concime, con la conseguenza che gran parte di questo finiva nei corsi d’acqua, dove continuava il lavoro per cui era stato creato, fertilizzare. L’aumento sproporzionato di alghe privava l’acqua dell’ossigeno, uccidendo milioni di pesci, e altre speci acquatiche, trasformando i fiumi in cloache maleodoranti. In più, questi concimi, non emendavano il suolo, che in poco tempo diventava duro come cemento, e quasi impermeabile all’acqua e all’ossigeno. Ora con l’invenzione di concimi naturali pellettati, si cerca di rimediare, tornando alle origini, sperando che non sia troppo tardi, perché di Terra non abbiamo che questa, e se si “rompe,” per noi è finita!

Mario Volpi 18.08.2020
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