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Sezione a cura di Mario Volpi
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Un padre affettuoso

Racconti
Spetta/Le Redazione
Fin da bambini ci insegnano che il lupo è cattivo perché uccide l'agnellino, dimenticandosi di dire, che per sfamare i suoi lupacchiotti il lupo è pronto a tutto, anche a sfidare i cani del pastore.

Eurinice, era la maggiore di una nidiata di sette figli. Aveva appena quindici primavere, ma purtroppo, un destino avverso l’aveva fatta crescere troppo in fretta. Sua madre era morta di parto nel dare alla luce il settimo pargolo, perciò lei era diventata di colpo la “padrona di casa.” Questa carica non era certamente onorifica, e implicava il disbrigo delle faccende domestiche, l’accudire ai fratelli più piccoli, e non ultimo preparare anche il cibo per tutta la famiglia. Il padre Astolfo, era “l’omo fabris,” del villaggio, rispettato da tutti, era molto abile nel suo mestiere, oltre ad essere un gran lavoratore. In più, era sempre pronto ad aiutare tutti, cosa che lo aveva fatto apprezzare da tutta la comunità. Questa sua generosità, alcuni anni fa gli era costata la perdita di una falange del dito anulare sinistro, mentre cercava di fermare un cavallo, che si era improvvisamente imbizzarrito. Era molto stimato anche da sua Signoria il Duca Ludovico, tanto che spesso lo mandava a chiamare per commissionargli qualche servigio. Le spade da lui forgiate erano famose in tutta la contrada, e spesso importanti Cavalieri venivano alla sua bottega per ordinarne qualcuna, ma nonostante questa sua bravura e notorietà, faticava parecchio a sfamare la sua numerosa famiglia Nel suo lavoro era aiutato da Ardoberto, il figlio maschio più grande. Grande si fa per dire, perché era appena undicenne, ma era utilissimo per attizzare la forgia, e spaccare il carbone di legna comperato da Rinaldo. Costui, faceva il carbonaio nella tenuta del Duca, ma il carbone prodotto era tutto di sua Signoria, tranne una libbra giornaliera, che poteva tenere per se. Rinaldo però, aveva una famiglia molto numerosa, composta di nove figli, perciò il pover’uomo era costretto a venderne una parte per comprare generi di prima necessità. Il figlio più grande si chiamava Filiberto, e oltre a essere d’età con Ardoberto, era anche il suo amico più caro. Quando necessitava il carbone per la forgia, era sempre Filiberto che lo portava con il fido asinello, e i due ragazzi non perdevano occasione di chiacchierare insieme. Oltre che per vedere l’amichetto, Filiberto andava volentieri a vendere il carbone al fabbro, perché spesso questi, gli permetteva d’impugnare qualcuna delle magnifiche spade che costruiva per i nobili. Astolfo era un padre molto affettuoso, e fingeva di non vedere Aldoberto che, mentre perdeva tempo con l’amico, tralasciava di muovere il grande mantice di pelle. Era indulgente anche con Filiberto, che conosceva fin dalla più tenera età. La generosità del fabbro arrivava a non vuotare completamente il cesto di carbone, lasciandone quasi mezza libra al ragazzo da riportare a casa. La preoccupazione più grande del fabbro, era che alla sua famiglia non mancassero mai il cibo e il vestiario, e fino ad ora, anche se con enormi sacrifici, era riuscito a soddisfare pienamente questo desiderio. Al ritorno dei suoi frequenti viaggi al castello del Duca, distante poche leghe, portava sempre cibo, e stoffa di canapa o ginestra, per confezionare le vesti per i figli. Era Eurinice la sarta delegata a cucire le semplici tuniche per i fratelli. Un giorno Astolfo rincasò da uno dei suoi viaggi al castello che era già buio, e alla fioca luce di una lucerna vide la figlia intenta a rammendare uno strappo alla tunica che il più piccolo dei fratelli, si era procurato, cadendo tra i rovi. Con un sorriso, passò la mano callosa sulla testa della ragazza, e d’impeto la strinse a se in un abbraccio affettuoso. Poi disse “figlia mia, non sciupare i tuoi splendidi occhi, con questo lavoro in questa penombra, aspetta domani la luce del sole, ora gustiamoci tutti insieme, questa squisita salamella che sua Signoria ha voluto donarmi.” L’inverno era al culmine, la neve era molto alta e si accumulava pericolosamente sui tetti di paglia delle misere baracche. Il freddo era terribile, gelando perfino l’acqua del pozzo comune. Molte famiglie del piccolo villaggio, cercavano disperatamente di sopravvivere a quel freddo intenso, bruciando nei camini sterpaglie e rovi secchi, che però, dopo l’iniziale fiammata, si spegnevano subito, rigettando le misere abitazioni tra le fauci del gelo. Anche le scorte alimentari erano esaurite, la gente era costretta a bollire l’erba dei campi, per placare, anche se in modo illusorio i morsi della fame. Ma la carestia e il freddo non erano le uniche calamità che si stavano abbattendo sul villaggio. Era giunta voce che i guardacaccia del Duca avevano sorpreso Rinaldo, e il figlio maggiore Filiberto, con un cervo appena ucciso nella sua riserva di caccia. La fame è spesso cattiva consigliera, e per vincerla e salvare la famiglia, il carbonaio e il figlio, avevano deciso di rischiare a uccidere un cervo, per non morire di fame. Purtroppo la pena per questo reato era terribile; il taglio della testa. Perché la punizione fosse di monito a tutti, il Duca aveva ordinato che l’esecuzione avvenisse nella piazza del piccolo villaggio, a mezzogiorno in punto, e che tutti gli abitanti fossero presenti. Il giorno dopo gli sgherri del Duca radunarono la gente al centro della piazza, e poco dopo il macabro corteo giunse. Su un carro scoperto trainato da due buoi, vi erano Rinaldo e il figlio, legati a una specie di croce, a petto nudo, urlanti e completamente ricoperti di sangue, perché tormentati continuamente dalle sferzate che l’aiutante del boia infliggeva loro. Poco più indietro, vi era un altro carro, tirato da un macilento ronzino. Era a quattro ruote, completamente senza sponde, con al centro saldamente fissato un grosso ceppo di quercia. Poco più indietro, un paio di muli trainavano un alto carro a quattro ruote, coperto da un telo, carico di soldati, che scortavano il boia, incappucciato e coperto da una tunica rossa. Giunti al centro della piccola piazza, il corteo si fermò. E il carro con il ceppo fu posto al centro del piccolo spiazzo. Poi il Siniscalco del Duca, in sella a un destriero nero, lesse ad alta voce la sentenza, e subito dopo, Rinaldo fu trascinato giù dal carro e issato a forza su quello dove il boia, e il suo aiutante lo aspettavano. Dopo averlo fatto inginocchiare con la testa appoggiata sul ceppo, il boia alzò l’enorme scure, e calò un terribile fendente. Un grosso schizzo di sangue, colpì la veste di Eurinice, che era a pochi passi, la ragazza urlò, e tentò di fuggire piangendo, ma i soldati gli lo impedirono, e mentre il corpo del carbonaio era gettato giù dal carro, i giannizzeri presero Filiberto. Il ragazzo urlava e si dimenava, e l’aiutante del carnefice faticava a legarlo. Allora il boia si sfilò i guanti, e completò, in fretta l’operazione, poi mise la testa del ragazzo sul ceppo macchiato dal sangue del padre, alzò la scure, e con un colpo secco lo decapitò. Fu allora che Eurinice, con un urlo svenne. Alla mano sinistra che stringeva il manico della scure insanguinata, mancava la falange dell’anulare. Il boia era suo padre.
Mario Volpi 10.7.21
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