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Sezione a cura di Mario Volpi
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Un mestiere infame

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
"chiaccheri come una lavandaia"  dice qualcuno in un tono fra l'ironico e il dispregiativo. Forse ignorando, quanto sia stato duro e ingrato questo pur indispensabile lavoro per intere generazioni di donne.

Tra la decine di mestieri andati perduti a causa del progresso tecnologico, penso che solo per quello di lavandaia non vi sarà alcuna nostalgia. Oggi, in un mondo dove in ogni famiglia è ormai presenza fissa e indispensabile, una o più lavatrici, spesso supportate da asciugatrici, e che fare il bucato è diventata un’operazione di una facilità, e semplicità estrema, è complicato spiegare alle nuove generazioni, cosa comportava fare quello stesso lavoro appena settanta anni fa. Prima di tutto, è bene precisare che stiamo parlando del “mestiere,” di lavandaia, anche se quello svolto dalle normali casalinghe del tempo, non differiva di molto, se si escludono naturalmente le quantità. La lavandaia tipo del tempo, era quasi sempre una vedova, con a carico una marea di figli, che con gli scarsi guadagni di questo ingrato lavoro, riusciva a stento a sopravvivere, spesso a scapito della propria salute, come vedremo più avanti. Parleremo della zona Apuana, anche se in altri parti dell’Italia, questo lavoro non differiva di molto. Al tempo le abitazioni provviste di acqua corrente si contavano sulle dita di una mano, quindi la priorità per poter “lavare i panni,” come si diceva una volta, era procurarsela. Prima di tutto era necessario avere a disposizione uno o due “concon,” ossia un grosso catino di terracotta, smaltato, che aveva sul fondo un foro, chiuso da un tappo di legno. Questi erano posizionati secondo la disponibilità, in mezzo all’aia, o al riparo del porticato del fienile, quando era disponibile. Si cominciava con mettere i “panni,” consegnati alla lavandaia dalle famiglie più ricche, dentro il concon, avendo cura di porli a strati per sfruttare lo spazio al meglio. Poi il lavoro più faticoso poteva cominciare. Con il “bazil,” un contenitore in rame stagnato, si andava alla fontana, o al pozzo per attingere acqua. Questa era portata in casa, trasportandola sulla testa, protetta dal “gualch” uno straccio ritorto e piegato a mo’ di ciambella. Qui si travasava sul “parol,” una grossa marmitta che pendeva dal camino tramite una catena. Intanto, sullo strato di panni da lavare si poneva uno spesso telo, e su di esso era messa una buona quantità di cenere. La migliore era quella di ulivo, che dopo essere stata prelevata dal camino, e accuratamente setacciata veniva messa da parte. Quando l’acqua bolliva, la si versava lentamente sulla cenere. Questa operazione, vecchia di secoli, produceva una detersivo, naturale, biologico, e molto potente, il  ranno, “ran,” in dialetto. Anche se la lavandaia sicuramente non sapeva che quello che stava usando era una sostanza simile alla soda caustica, sapeva perfettamente il tempo esatto che il bucato doveva stare in infusione senza danneggiare la stoffa del tessuto. Quando giudicava che fosse passato abbastanza tempo, rimuoveva il tappo del concon, e il liquido poteva defluire, ma non si gettava via, mescolato ad altra acqua era usato come fertilizzante nell’orto. Il lavoro però, si poteva dire, che fosse stato compiuto per meno della metà. Ora bisognava togliere i panni strizzarli sommariamente, e andare “al canal,”(corso d’acqua) più vicino per il risciacquo. Questa era sicuramente la parte più faticosa. Usando carretti o carriole, la lavandaia portava la biancheria sulle rive del fiume, dove vi erano diverse “postazioni,” spesso usate da generazioni di lavandaie. Consistevano di solito in una lastra di marmo, sulla riva per inginocchiarsi, e un’altra di duro e rugoso macinio, parzialmente immersa nell’acqua. Qui, la lavandaia, sfidando il gelo dell’acqua, sia in estate che in inverno, spesso aiutandosi con una pertica, risciacquava battendo i panni per poi strizzarli, con l’aiuto di qualche collega, o della figlia maggiore, per poi riportarli nell’aia. Lo stare per ore, tutti i giorni, inginocchiata su una superfice dura e umida, portava molto spesso a una borsite alle ginocchia, non a caso chiamata dai medici, “ginocchio della lavandaia.” Anche le mani erano messe a dura prova, e d’inverno si ricoprivano di dolorosissimi geloni, e di ancora più dolorose “setole,” ossia ragadi, di difficilissima guarigione. Le artrosi e i reumatismi, poi, erano considerati quasi “naturali,” e l’assenza di farmaci specifici, causavano alle povere donne un vero e proprio calvario. Alcune lavandaie inconsapevolmente, usavano un trucco, o meglio, il primo sbiancante ottico del tempo; il turchinetto. Questa sostanza era, come dice il nome, di un acceso color turchino, che mescolata all’acqua del risciaquo, donava al bucato un bianco azzurrino, ma soprattutto era utilissimo per eliminare gli aloni giallastri dai tessuti causati dai raggi solari. Per fare questo però, si sobbarcavano la fatica di un altro risciacquo, questa volta dentro al concon. Si passava poi a stendere la biancheria al sole, alla sua raccolta, e alla stiratura, effettuata con un ferro pieno di carbonella accesa, o scaldato sulle braci del camino. Alcune lavandaie, poi, per rendere più “fedele,” la loro clientela, mettevano nelle biancheria accuratamente piegata, sacchettini di stoffa con lavanda, o altre erbe profumate. Alla fine della prima guerra mondiale, alcune Amministrazioni Comunali, tra cui quella di Carrara, nell’intento di rendere più confortevole il lavaggio della biancheria per la popolazione, costruirono nei pressi di corsi d’acqua i primi lavatoi pubblici, provvisti di varie vasche con acqua corrente, e protetti da tettoie. Nei Paesi a Monte erano numerosi, e secondo la grandezza e il numero di abitanti qualche Paese ne possedeva più di uno. Ben presto questi luoghi, oltre a essere delegati alla pulizia della biancheria, divennero dei veri e propri centri di aggregazione femminile, dove ci si scambiavano notizie o semplici pettegolezzi, che comunque avevano un benefico effetto nel mitigare la grama e faticosa vita delle donne del tempo. A causa dell’aumento demografico della popolazione nel primo dopoguerra, il numero dei lavatoi fu ulteriormente incrementato, in alcuni casi abbinandolo alla costruzione nelle adiacenze di bagni pubblici, dove era possibile sperimentare un nuovo sistema di igiene personale; la doccia. Uno degli ultimi ad essere costruito a Carrara, fu in località Caina, sulla via Carriona intorno ai primi anni cinquanta. Oggi tutto questo sembra fantascienza, ma per alcuni di noi, se oggi siamo in questo mondo, lo dobbiamo a una mamma, che per permettere ciò, si è consumata mani, ginocchia e vita, sulle sponde di un torrente.
 
Mario Volpi 22.8.21
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