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Sezione a cura di Mario Volpi
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‘L calzolar dle bestie

Una Volta Invece

Spetta/Le Redazione marzo 2019

Tra le decine di mestieri che il progresso ha spazzato via, alcuni stanno tornando, con scopi magari diversi da quelli dei secoli passati, ma fa piacere che almeno una piccolissima parte di quel sapere millenario non vada perduta per sempre.

L calzolar dle bestie

Nel territorio Apuano, per secoli una delle figure più importanti della Società del tempo, era il fabbro o ” magnan, ” com’era chiamato in dialetto. Il nostro territorio però, era evocato più che altro, per l’estrazione, e il conseguente trasporto del marmo, che al tempo avveniva con i buoi, ecco che il fabbro era soprattutto un maniscalco. Un maniscalco particolare, perché i suoi “pazienti” erano soprattutto i buoi. Anche se non ci sono dati certi, si stima che il numero di questi animali, possa aver raggiunto nel periodo di massimo splendore, gli ottomila capi, cui vanno aggiunti un numero quasi doppio tra cavalli, asini e soprattutto muli. Il maniscalco, era “chi pratica l’arte della mascalcia” mastiere-arte che era annoverata tra quelle attività considerate “sicure” ovvero in grado di permettere a chi la praticava di sostentare agevolmente la famiglia. E’ ovvio, che, come in tutte le attività, vi fossero le eccellenze, in altre parole chi era considerato un maestro, e chi uno “scalzacane, ” com’era chiamato in dialetto, ossia un mestierante che era meglio evitare. Come il solito la saggezza popolare aveva capito, anche se in maniera empirica, come un bravo e attento maniscalco, potesse far sì che un’animale ben ferrata potesse trarne il massimo benefico, sia come confort, ma soprattutto come durata del ferro, e in assenza di patologie del piede, con conseguente vantaggio economico per il padrone. In un mondo dove l’animale era considerato solo una “cosa” da sfruttare, e il veterinario, una figura totalmente sconosciuta, era il maniscalco che si occupava di curare e prevenire le frequenti malattie alle zampe, di buoi, asini cavalli e muli, causate spesso dalle pessime condizioni igieniche in cui gli animali di quei tempi erano tenuti. Questo si trasformava in utili per il proprietario dell’animale, e in reputazione positiva per il maniscalco. Prima di continuare, è doveroso spiegare l’enorme differenza che intercorre tra il ferrare un cavallo e un bove. Mentre il cavallo possiede un unico zoccolo scavato al centro, il bue ha due unghie separate sullo stesso piede, quindi necessita di due ferri per ogni zampa, con le difficoltà che questo comporta, nell’applicare il ferro dalla forma perfetta, ma soprattutto al momento dell’inserimento dei chiodi. Alcuni anni fa, in un Paese a monte, furono ritrovati per caso alcuni “ferri da bove, ” rimasti sepolti per secoli in uno scantinato, che forse un tempo aveva ospitato una bottega di maniscalco. Ebbene si scoprì che l’esperienza secolare aveva insegnato ai maniscalchi carrarini di allora come, con dei semplici accorgimenti, trarre il massimo sforzo dall’animale. I ferri avevano un rampone sul tallone, ottimo per non scivolare sulle ripide strade al monte, e una specie di linguetta metallica che soprammontava l’unghia a mo’ di ciabatta, impedendo così al ferro di muoversi anche nelle situazioni più difficili. Anche la ferratura dei muli, aveva raggiunto nel nostro comprensorio livelli di eccellenza. Erano infatti questi animali, che si occupavano di trasportare dal Poggio alla cava qualsiasi tipo di materiale, dalla sabbia per il filo elicoidale, alle vivande per il capannaro. Quotidianamente lunghe file di muli si arrampicavano lungo gli impervi sentieri appena abbozzati, ricavati nei ravaneti, per arrivare alle cave più alte, dove un mulattiere li aspettava per scaricarli, e poi, dopo averli legati in colonna, li rispedivano giù, dove un altro mulattiere li caricava per la risalita. Da notare che questi percorsi erano compiuti in modo autonomo dagli animali, e si ripetevano per tutto il giorno. Altro discorso era la ferratura dei cavalli, la maggior parte dei quali, da tiro pesante, e quindi di stazza imponente, adibiti al tiro di birocci a quattro, o due ruote, o alle pesantissime “mambruche,” carri speciali per il trasporto delle lastre di marmo in posizione verticale. Mi ricordo che da bambino andavo spesso alla bottega di Nandin, un ometto, di piccola statura, ma con le mani grandi e nodose come i rami contorti di un castagno, con il volto perennemente sporco dalla polvere di carbone, che un garzone poco più grande di me, spaccava con un martello prima di ammucchiare accanto alla forgia. Quando arrivava un cavallo da ferrare era uno spettacolo. Il gigantesco animale era staccato dal carro e condotto sulla porta della bottega, dove era legato per la cavezza, a un grosso anello di ferro infisso nel muro. Nandin, quasi spariva accanto a lui, ma si muoveva con la sicurezza di decenni di esperienza. Portava accanto alla zampa da ferrare una specie di treppiede metallico, dove la zampa dell’animale era appoggiata prima di essere legata piegata, con lo zoccolo in su. Poi con rauchi comandi si faceva porgere dal garzone delle tenaglie con cui levava il vecchio ferro. Dopo aver spianato lo zoccolo con una raspa, e ripulito con un affilato trincetto, andava a prendere un ferro da un grosso mazzo attaccato a una parete, e dopo una rapida prova, lo poneva ad arroventarsi sulla forgia, con il fuoco di carbone mantenuto ben vivo da una pompa a mano azionata dallo stesso garzone. Quando il ferro era diventato giallo oro, con un paio di pinze lo estraeva e postolo sull’incudine lo colpiva con un grosso martello, tenendo il ritmo battendo a vuoto sull’incudine stessa. Quando aveva ottenuto la forma voluta, lo faceva riscaldare di nuovo ma questa volta a rosso ciliegio, e poi con un attrezzo speciale, lo afferrava per i fori dove avrebbe posto i chiodi, e lo premeva contro lo zoccolo del cavallo. Subito si levava un fumo acre dall’inconfondibile odore di corno bruciato, quando giudicava che fosse sufficiente lo gettava in un contenitore d’acqua per raffreddarlo. Così facendo, si otteneva nello zoccolo una superfice perfettamente piana. dove fissare il ferro, che così sarebbe rimasto ben saldo per molto tempo. Oggi i maniscalchi, dopo un lungo periodo di oblio, stanno tornando in auge, per la ferratura di cavalli da corsa, o per motivi ludici che i molti maneggi offrono. La tecnologia viene loro incontro, proponendo ferri di materiali innovativi come il bronzo, il titanio, e perfino la plastica, ma anche se cambia il materiale, la saggezza e la bravura del “calzolar dle bestie” resterà per sempre l’unica priorità, uguale a quella dei suoi predecessori dei secoli passati, dove alla fin fine, contava solo il benessere dell’animale.

Mario Volpi
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