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Sezione a cura di Mario Volpi
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Usa e getta

Una Volta Invece

Spetta/Le Redazione
10 febbraio 2014

Da qualche decennio sempre più spesso si sente pronunciare da esponenti di grandi imprese industriali la parola: Delocalizzazione, il cui significato si può spiegare così. Le imprese industriali si trasferiscono in paesi dove gli operai non potranno permettersi di acquistare i prodotti da loro stessi costruiti, mentre nei paesi dove sono destinati, gli operai licenziati non  hanno abbastanza denaro per comperarli. Ha senso tutto ciò?

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Usa e getta

Se da un lato il passare del tempo mi angoscia, perché mi avvicina sempre più a quel momento fatale, che io spero avvenga il più lontano possibile, dall’altro mi sento un privilegiato, perché ho avuto la possibilità di assistere a cambiamenti epocali. In meno di sessanta anni ho assistito a trasformazioni sociali che in altre Ere sono avvenute in secoli. Il passaggio da Società rurale a Società industriale è avvenuto nell’arco di due decenni, tagliando fuori culturalmente larghe fasce della popolazione. Nel mondo del lavoro, professioni millenarie, come il lizzatore, il carrettiere, il mulattiere, l’ombrellaio, l’arrotino, lo spazzacamino, il falegname, e il fabbro solo per citare i più importanti, sono scomparsi, ma non come sarebbe naturale, nell’arco di una o due generazioni, ma in pochissimi anni. Questi antichi mestieri sono spariti così in fretta da risultare pressoché sconosciuti alle nuove generazioni, tanto che fanno fatica anche a comprenderne la funzione quando gli si va a narrare della loro esistenza. Ma purtroppo non è finita qui, anche il mondo del piccolo commercio ha subito un duro colpo, con alcuni commercianti totalmente spariti, e altri sul punto di farlo. Non esiste più il carbonaio, l’impagliatore, lo straccivendolo, il “bicicletar” (riparatore di biciclette) il pittore d’insegne, l’orologiaio, e il ciabattino. Anche “ ‘l bot’gar” (l’esercente di negozio di alimentari) “ ‘l maz’dar” (macellaio) e “l pessai” (pescivendolo) sono sull’orlo dell’estinzione, ingoiati dalla famelica e vorace Grande Distribuzione. L’uso del computer poi, ha operato una vera e propria “strage” nel mondo del lavoro, facendo diventare obsolete una miriade di professioni, alcune delle quali nate da pochi decenni. Così dagli uffici sono definitivamente scomparse le centraliniste, le dattilografe, le stenografe, il calligrafo, e dalle tipografie il linotipista. Si è venuto a creare così un paradosso, che mentre l’uso della tecnologia nel lavoro ne ha centuplicato la precisione e la velocità, ne ha in egual misura drasticamente tagliato il numero di soggetti occupati. Il consumismo più sfrenato poi, evolve con una velocità incredibile, è come un mostro, mangia i suoi stessi figli, così commerci e professioni appena nate come videoteche, negozi di dischi, riparatori di televisioni, laboratori fotografici, e fotografi, sono pressoché spariti. Il mondo industriale poi, nell’eterna ricerca del profitto ad ogni costo, ha sviluppato varie tecniche per vendere i propri prodotti, a un consumatore finale spesso pesantemente e inconsapevolmente condizionato. Questo è possibile non solo con l’uso massiccio di campagne pubblicitarie martellanti, ma soprattutto con l’utilizzo di tecniche di vendita al limite della truffa; una di queste è la famosa, anche per il suo nome difficilissimo e quasi impronunciabile; obsolescenza programmata. In pratica ogni prodotto tecnologico ha un programma di “autodistruzione” a tempo, che lo distrugge dopo un certo numero di ore di lavoro. Questo sistema fu usato per la prima volta dai produttori di lampadine statunitensi nel lontano 1924, che fecero cartello, e si accordarono perchè il filamento ad incandescenza delle lampadine di loro produzione non durasse più di 1000 ore. Oggi questa tecnica  è praticata anche in Europa, anche se le principali industrie negano di usarla, ma vengono smentite dai fatti. Si assiste così a elettrodomestici che si rompono appena scaduta la garanzia, a stampanti con un software incorporato che non solo fa cambiare le cartucce ancora parzialmente cariche, ma che dopo un certo numero di copie blocca la macchina, telefonini, che dopo poco tempo non accettano più un certo tipo di segnale, computer che impazziscono improvvisamente, e così via. A rendere il tutto al limite della truffa, è il fatto che i produttori fanno di tutto per rendere impossibili o antieconomiche eventuali riparazioni, costringendo così il consumatore a l’acquisto di un prodotto nuovo. Anche i piccoli elettrodomestici, in teoria facilmente riparabili, sono in realtà progettati in modo da rendere difficilissimo la sostituzione di parti danneggiate. Per fare questo le Case produttrici prima di tutto non forniscono pezzi di ricambio, in più per contrastare il “fai da te” dei consumatori, installano viti e bulloni che necessitano di chiavi e cacciaviti speciali per la loro rimozione, di difficile o impossibile reperibilità, mentre i cavi elettrici sono pressofusi nelle prese.
Questo esasperato e scriteriato “usa e getta”, nei mestieri e nei consumi, ci costringerà prima o poi a tornare sui nostri passi, forse per non finire soffocati dai nostri stessi rifiuti, o per la mancanza di operai, e quindi di consumatori.
Un tempo tutto era in funzione dell’uomo, e non del profitto, i mestieri si tramandavano di padre in figlio arricchendosi di professionalità ed esperienza ad ogni generazione, un oggetto veniva riparato fino a quando era possibile, anzi si faceva di tutto per farlo durare più a lungo. Intere categorie di artigiani erano impiegati per le riparazioni, e il lavoro non mancava a nessuno. Sicuramente in questo sistema produttivo, e nella gestione del lavoro, ci deve essere qualche cosa di sbagliato, perché, mentre i nostri padri cominciavano l’apprendistato a 14 anni, noi a quaranta siamo ancora in cerca del primo impiego.


Volpi Mario

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