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Sezione a cura di Mario Volpi
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Battere il filo

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Il progresso galoppante ha di fatto privato le nuove generazioni della possibilità di conoscere il vivere quotidiano dei loro nonni, e questo è un vero peccato.

Non ha caso ho voluto usare questo titolo, per qualcuno privo di significato, ma che invece ha rappresentato per secoli il quotidiano della vita contadina. Quando ero molto piccolo, a Carrara, e stiamo parlando del secondo dopoguerra, nel mese di settembre fervevano i lavori per la preparazione della bacchiatura e raccolta delle olive, che sarebbe iniziata nel mese di ottobre. Il nostro territorio è in prevalenza collinare, ed è in questo contesto che gli uliveti si estendevano un tempo, fino a ricoprire interi versanti. I vari padroni degli appezzamenti, secondo la grandezza del fondo, ingaggiavano diverse decine di donne, per “segar ‘l fen” (tagliare l’erba) sotto le piante di olivo per permettere la raccolta in modo più agevole. Per fare ciò le donne dovevano fare  “com dle pecre a do gambe” (come delle pecore a due gambe.) Si diceva così in dialetto, per rappresentare non solo la posizione a novanta gradi che assumevano, ma soprattutto per il modo di falciare l’erba, simile al brucare delle pecore. Le donne in giornata spesso si portavano da casa la propria falce messoria, ma era il padrone del fondo che metteva a disposizione un “battifilo” di sua fiducia. Prima di continuare, sarà meglio spiegare in cosa consisteva quest’attrezzo, il cui uso si perde nella notte dei tempi. La falce messoria o falcetto, da millenni usata anche per la mietitura del grano da cui prende il nome, è costituita da una lama in acciaio molto sottile e ricurva, con una costolatura all’esterno per rinforzarne la struttura, finisce con un corto manico in legno, infisso su un’apposita appendice appuntita della falce. Anche se a prima vista sembra un attrezzo semplice, in realtà non lo è. Innanzi tutto, anche se sembra illogico, esistono falci per destri e per mancini, e la sostanziale differenza sta nella bombatura della lama. Una caratteristica fondamentale per una buona falce è la battitura del filo. Questa avveniva usando come incudine un apposito attrezzo, simile a un grosso chiodo in acciaio temperato, con la testa oblunga e leggermente arrotondata, infisso in un ciocco di legno. E qui entrava in gioco l’arte dell’uomo addetto a “battere il filo” di falci messorie, o le più lunghe fienaie. Il martello doveva picchiare sempre nel solito punto, e con la solita forza, per evitare di “far un cornocion al fil” ( fare un bernoccolo al filo) che sarebbe poi dovuto essere limato con la pietra. La battitura doveva assottigliare per rendere affilatissimo il filo, ma non doveva snervarlo perché altrimenti sarebbe diventato  ondulato rendendo la falce inutilizzabile. Il lavoro di falciatura consisteva nel prendere un ciuffo d’erba, con la mano destra o sinistra, se si era mancini, e con la falce praticare un taglio deciso più vicino possibile al terreno, questo a gran velocità, da qui l’accostamento al brucare delle pecore. L’erba tagliata, era posta nella “cavagna,” una grossa cesta in vimini rotonda a intreccio largo, e quando era piena due donne la portavano dove era posta la “tragia,” la slitta in legno trainata da due mucche che la trasportavano in fattoria. L’erba di settembre-ottobre era considerata l’ultimo taglio, e perciò di scarsa qualità, e data in parte solo ai conigli, il resto fatta essiccare e usata come “letto” per le mucche. Anche se sembra impossibile la parte più massacrante del lavoro del contadino di quei tempi era proprio il taglio dell’erba, pratica svolta da marzo fino a settembre, in modo quasi giornaliero per dare da mangiare al bestiame, o per controllare l’erba infestante in vigneti, e campi. Per il taglio del prato si usava la falce fienaia. Questa è costituita da una lama  leggermente ricurva lunga circa settanta centimetri,  infissa in una pertica in legno provvista di due manici. Per l’uso di questo attrezzo erano necessari anni di apprendimento, anche solo per la sua affilatura che avveniva continuamente dopo pochi metri di taglio, tramite una pietra d’affilatura immersa in un corno di mucca contenente un po’ d’ acqua fissato alla cintura del contadino. Il falciatore, dopo aver rovesciato la falce con la lama in alto con gesti velocissimi strusciava la pietra avanti e indietro sul filo, senza pensare che un gesto sbagliato avrebbe potuto con facilità troncagli di netto una falange. La falce ha accompagnato nei millenni l’umanità, perfino nella guerra, come i guerrieri Traci, e caricandosi nei secoli di simbolismi che sono arrivati sino ai giorni nostri. Presente fin dal medioevo negli stemmi araldici di antiche nobili casate sia italiane che europee, la falce, soprattutto quella fienaia, rappresentava oltre al lavoro operoso, anche lo sterminio di intere schiere di nemici. Nel XIV secolo, durante la grande epidemia di peste nera che devastò l’intera Europa, la falce fienaia, messa nelle mani di uno scheletro incappucciato di nero, rappresentò la morte. Perfino il neonato, e ancora clandestino Partito Comunista d’Italia nel 1921 a Livorno, diventato poi Partito Comunista Italiano, inserì la falce messoria insieme al martello nel suo simbolo. Nel 1946, ad Abbiategrasso, grazie ad una invenzione tutta italiana dovuta a tre giovani pieni d’ingegno, nascerà la prima motofalciatrice che porterà come sigla  proprio le iniziale dei cognomi dei suoi inventori, B.C.S, e che affrancherà, nei decenni a seguire, i contadini dalle immani fatiche di falciatura nei campi. Ma nel territorio Apuano prevalentemente montuoso, le fatiche delle donne in giornata continueranno fino a metà degli anni sessanta, quando finalmente verrà inventato una falciatrice portatile a motore; il decespugliatore. I primi modelli avevano il motore a scoppio piazzato su di una specie di zaino, con l’asta dotata di un manubrio per meglio controllarla. Il taglio era effettuato da un disco in acciaio che girava ad alta velocità. Poi negli anni settanta un americano ne modificò il funzionamento inserendo al posto del disco un filo di plastica dura. Oggi il lavoro di una giornata di venti donne di un tempo, può essere svolto comodamente in metà tempo da una sola persona munita di tale macchinario. Proprio a causa di questa innovazione tecnologia le falci fienaie e messorie sono quasi scomparse, e le nuove generazioni non sanno più neppure cosa siano. Triste fine per un attrezzo millenario.
 
Mario Volpi 21.10.22
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