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Sezione a cura di Mario Volpi
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Il nostro pane...

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Pochi, delle nuove generazioni avranno avuto la fortuna di potere assaggiare un pezzo di pane casereccio appena sfornato. Quindi non sanno neppure cosa si sono persi, cosa che invece quelli "giovani" come me, rimpiangono con nostalgia.
Il nostro pane quotidiano...
Già nel Neolitico, il pane, era ben conosciuto dai nostri progenitori. Impastato con farine ricavate dalle prime varietà di orzo e miglio, era ancora azimo, ma già allora considerato alla base dell’alimentazione. Di facile conservazione, ha accompagnato nei millenni l’evoluzione umana, e proprio grazie alla sua importanza come alimento, che i suoi simulacri simbolici ha, in alcune religioni monoteiste, guadagnato l’onore degli altari.  Ma non è del pane che voglio parlare, ma di come si produceva un tempo. Fino a gran parte degli anni cinquanta infatti, a Carrara. ma anche in buona parte dell’Italia, il pane era ancora prodotto autonomamente in quasi ogni famiglia. La sua produzione era relativamente semplice, perché bastava acqua, lievito, sale, e farina, e un luogo per la cottura, ossia un forno. Non ha caso, dopo le immani distruzioni causate dalla seconda guerra mondiale, quando si cercava di ricostruire, o rabberciare alla meno peggio le case, e le cascine, gravemente danneggiate dai bombardamenti, la prima cosa che si ricostruiva era il forno. La tecnica di costruzione era antica di secoli, fatta quasi interamente con materiali poveri o riciclati, ma proprio per questo un vero e proprio capolavoro di efficienza e semplicità. Si cominciava con il costruire il piano, su cui il forno doveva essere appoggiato. Dopo aver sbancato un po’ il terreno, si livellava e si procedeva a una gettata di ghiaia e cemento. Quando il tutto era secco, si cominciava a costruire con i mattoni pieni quattro o più colonne secondo la grandezza del forno, arrivati a una certa altezza, si poneva una spessa lastra di marmo sulle colonne che, oltre a sorreggere il futuro forno, sarebbe servita come tetto per la legnaia. Dopo aver contornato la lastra con una fila di mattoni, si metteva uno spesso strato di sabbia refrattaria impastata con cemento fuso, avendo cura che fosse perfettamente a livello con il contorno. Dopo alcuni giorni si cominciava la costruzione vera e propria del forno. Sulla base appena costruita, era messa una pavimentazione di mattoni refrattari, fissati sempre con cemento fuso o refrattario. Sulla pavimentazione così ottenuta si tracciava un cerchio che era esattamente dell’ampiezza interna del forno da costruire, quindi si contornava l’esterno della tracciatura con una prima fila di mattoni refrattari posti in costa, con una leggera pendenza verso l’interno. Ora non restava altro che costruire il forno a cupola, con la bocca sormontata dal camino, ma come fare? Ed è qui, che secoli di esperienza hanno fornito una soluzione davvero geniale, nella sua semplicità. Dentro il primo giro di mattoni era messa una grande quantità di sabbia umida, battuta e compattata fino a formare una rozza cupola. Con una specie di compasso formato da una sagoma di compensato fissata con un piolo al centro del mucchio di sabbia, si rifilava il tutto, formando una cupola pressoché perfetta. Questa, altro non era che la copia in rilievo della cavità del forno. Ora bastava murarvi sopra i mattoni di costa, giro dopo giro, inclinati in dentro, lasciando ovviamente il vuoto della bocca, fino a chiuderla al centro. Quando la cupola era stata completata, si rinforzava con spezzoni di tondino metallico, e filo elicoidale da cava esausto, affogati in un altro strato di sabbia refrattaria impastata con cemento fuso. Quindi dopo alcuni giorni si estraeva la sabbia dall’interno, e a costruire il camino sopra la bocca. L’imboccatura del forno era di solito fatta in ghisa, e già pronta. Poi il tutto era racchiuso tra quattro mura, riempite con sabbia, per trattenere ancora meglio il calore. Usando travetti di castagno rozzamente squadrati, e saldamente murati, si andava a costruire il tetto. Con le tavole di scarto, prese per poche lire da qualche laboratorio d’incassatura, si formava un piano, che andava inchiodato sulle travi e successivamente ricoperto con le tegole. Questi tetti di solito comprendevano una specie di tettoia prolungata, per proteggere dagli elementi chi stava davanti alla bocca del forno. Dopo una settimana o più, tempo necessario alla sua completa essicazione, il forno andava “svegliato” come si diceva un tempo, e per farlo si procedeva così. Si prendeva una o due fascine di vite o di olivo, costituite dagli scarti delle potature, e dopo aver inserito all’interno del forno un pezzo di carta gialla unta, si appiccava il fuoco, alimentandolo lentamente con rami presi dalle fascine. Dopo circa mezz’ora, si metteva qualche ramo più grosso, per aumentare gradatamente la fiamma. Ovviamente la cupola diventava nera. Per qualche ora si continuava ad alimentare lentamente il fuoco, avendo cura di spargere le braci su tutta la pavimentazione. Quando la volta diventava di nuovo grigia, il forno era in temperatura, così, si smetteva di alimentarlo, e si tappava la bocca con l’apposito coperchio in ghisa, lasciandolo raffreddare lentamente per tutta la notte. Dopo questo “trattamento” il forno poteva essere usato normalmente. Nella città di Carrara, i forni presenti erano, e lo sono ancora, di due tipi, ovvero quelli dei Fornai e quelli dei cosiddetti “Castagnaccini.” (venditori di castagnaccio) Anche se molto simili tra loro, quelli di questi ultimi avevano una caratteristica unica, che esisteva solo in poche città Toscane. Il cibo da strada più noto di quei tempi era certamente la torta di ceci, chiamata in vernacolo carrarese “calda, calda” o come in quel di Livorno, “cecina, ” Ebbene per cuocere questa squisita specialità, era necessaria una teglia in rame, alta pochi centimetri, ma con il diametro di un metro. Per poterla porre all’interno del forno, la bocca aveva due basse aperture laterali, simili a una bocca che sorride, chiamate in dialetto “orece” (orecchie) presenti solo nei forni “carrarini.” “Fare il pane, ” come si diceva un tempo, era un’attività prettamente femminile, assai faticosa, e anche molto difficile, perché tutto era fatto a “occhio, ” ossia senza supporti tecnologici come termometri, bilance, o impastatrici, e che solo l’esperienza acquisita in anni lo rendeva possibile. La massaia, ogni quindici giorni, era addetta a questa incombenza, spesso aiutata da una schiera di figlie maggiori, o di vicine. Si cominciava con l’ impastare il quantitativo necessario di farina con il lievito madre, spesso vecchio di decenni.  Dopo aver formato le pagnotte, si ponevano su una tavola di legno, coperte con un telo di lino e lasciate lievitare per qualche ora. Intanto ci accendeva il forno, e lo si portava in temperatura con il solito metodo della “volta bianca.” Quindi si spargevano le braci su tutto il forno, per fare scaldare uniformemente il pavimento, e nel frattempo, si rimpastava e riformavano le pagnotte, avendo cura questa volta di segnarvi sopra una croce, sia per tradizione religiosa, sia per fare uscire meglio il vapore. Quando le braci si “velavano” della prima cenere, si toglievano, si puliva accuratamente il forno con una scopetta di “stipa” ( erica,) e vi si passava un cencio umido inchiodato su un bastone. Poi con una pala di legno si infornavano le pagnotte, e si chiudeva la bocca col coperchio. Dopo poco il fragrante profumo di pane caldo si spargeva come un balsamo per tutta l’aia, comunicando a piccoli, e grandi, che anche oggi avremo avuto … il nostro pane quotidiano.
Mario Volpi 06.12.2020
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