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Sezione a cura di Mario Volpi
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L’estate di una volta

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Oggi  ci lamentiamo per il troppo caldo e l'afa opprimente. Pensate un pò  cosa si doveva provare con quello stesso calore dover anche lavorare nei  campi!

Oggi, in Italia, l’estate è sinonimo di vacanze, gite al mare o in montagna, per i più fortunati viaggi all’estero in luoghi esotici, insomma, tempo di spensieratezza. La maggior parte delle attività commerciali, cambia l’orario di apertura, e perfino qualche fabbrica riduce le ore di lavoro. Tutto questo era impensabile nell’Italia ancora prevalentemente agricola degli anni cinquanta, dove l’estate era la stagione del poco sonno e del tanto lavoro. A Carrara poi, l’estate, era vista con un misto di amore-odio dai cavatori. Infatti, se da una parte la quasi totale assenza di piogge, favoriva il lavoro e di conseguenza riempiva al meglio la busta paga, dall’altra, il caldo asfissiante, e “l’or d bonora, ” ossia le levatacce mattutine, non favorivano di certo la qualità della loro vita. Si pensi che in estate, alcuni cavatori partivano di casa alle due di notte, per arrivare, ovviamente con il cavallo di San Francesco, sul piazzale della cava alle cinque, ora in cui cominciava il lavoro. Di solito la giornata regolare terminava alle tredici, ma già che il tempo lo permetteva si facevano gli “straù,” (straordinari) magari fino alle diciassette per cercare di arricchire la quindicina. E’ evidente che dopo il faticoso ritorno a casa, al cavatore non restava altro che crollare in un sonno profondo fino alle due del giorno dopo. Anche per il contadino le cose non andavano meglio. Escluso il lavoro di mungitura e rigoverno della stalla che era svolto sempre più o meno alla stessa ora, la giornata estiva cambiava radicalmente la vita di tutta la famiglia. Innanzi tutto bisogna precisare che “l’estate ” per una famiglia agricola di quegli anni, non era concomitante con quella astronomica, ma cominciava molto prima, ossia all’inizio della primavera. La sveglia era all’alba, anche per noi piccoli, perché la mamma doveva andare nei campi, perciò, anche se assonnati, ci faceva alzare, e dopo aver fatto colazione con un po’ di pane inzuppato nel latte appena munto, si seguiva i “grandi.” Il lavoro più importante, ripetitivo e faticoso, era il taglio del fieno, al tempo eseguito esclusivamente con il falcione, la sua rivoltatura per l’essicazione, e per finire la costruzione di uno o più pagliai. Anche noi avevamo un lavoro, in base all’età, i più piccoli, erano addetti a portare l’acqua da bere, mentre i più grandicelli guidavano le vacche che trainavano la “tragia” piena di fieno al luogo preposto per la costruzione del pagliaio. Alla fine di giugno “a s segav il gran,” ossia si eseguiva la mietitura. Il taglio avveniva con la falce, alla base delle piante, che poi si posavano al suolo avendo cura di metterle tutte a un verso. Dietro il nonno, insieme al fattore passava, e faceva i covoni, legandoli abilmente con un fascetto delle stesse spighe. Ma sicuramente era la raccolta delle patate quella più faticosa. Avveniva a metà luglio, e impegnava tutta la famiglia, oltre ai vicini. Gli uomini muniti di “b’castrin” una zappa a forca, aprivano i solchi portando in superfice le patate, che le donne e i bambini che seguivano provvedevano a mettere nel “capagn,” (cestino in vimini) e poi nelle ceste che le donne portavano sulla testa fino in cascina. Questa raccolta poteva durare più giorni, in base alla grandezza del campo, ma era molto amata da noi bambini perché sapevano, che le patate rovinate dalla zappa, la sera erano fritte, o fatte lessare sotto la cenere del camino, una vera prelibatezza. Di solito il lavoro nei campi era interrotto a causa del troppo caldo verso le dieci del mattino. Si tornava in cascina, dove la nonna, stava preparando da mangiare. Il pasto avveniva all’ombra del pergolato nell’aia, ed era composto dai prodotti che in quel periodo l’orto elargiva a piene mani. Insalate con pomodori, torte di zucchine, frittate di biete e porri, ricchi minestroni di verdure, accompagnati da pane casereccio, e frutta di stagione. Poi tutti si andava a fare un riposino pomeridiano, assolutamente necessario soprattutto per noi piccoli, che quasi ci addormentavamo in piedi. Il pomeriggio, era dedicato al gioco, mentre i grandi riprendevano il lavoro quando il sole non era più così feroce. Si cominciava a falciare l’erba da dare agli animali il giorno dopo, perché prima doveva essere fatta leggermente appassire, per evitare che “a si confiass ‘l buz” (gli si gonfiasse la pancia). Poi il lavoro continuava fino al tramonto e spesso anche a notte inoltrata. Al tempo, infatti, esisteva in tutto il territorio di Carrara, una fitta rete “d b’tali” (canali d’irrigazione) che partendo dal torrente Carrione, si diramava, in modo capillare in tutti i campi al tempo coltivati. Questa rete idrica era rigidamente gestita da dipendenti Comunali chiamati “B’taleri” che assegnavano, dietro pagamento, a ogni proprietario terriero tramite un sistema di chiuse, un tempo d’irrigazione. Di solito questo lavoro era eseguito di notte, per evitare che lo shock termico bruciasse le piante, ma soprattutto perché sarebbe stato quasi impossibile per le persone sostare di giorno sotto il rovente solo estivo. La battitura del grano avveniva nell’aia, dove la gigantesca trebbiatrice, trainata da un trattore arrivava la sera prima della lavorazione. A quel tempo, le trebbiatrici, erano gestite da “foresti” ossia da persone che venivano da fuori Provincia. Essendo la macchina molto costosa, e impiegata per un tempo limitato, era sorto un vero e proprio mestiere itinerante, dove per circa due mesi, il proprietario della macchina girava tutta la zona a chiamata, guadagnando in poco tempo l’equivalente di un anno di paga di un operaio. “L’estate del contadino,” finiva alla fine di settembre, con la raccolta del “f’ermenton” (mais) e con la “scartozzera,” ossia la sbucciatura delle pannocchie e la sgranatura delle stesse, che di solito avveniva i primi di ottobre. Questa divertente lavorazione, avveniva la sera dopo cena nel fienile, ed era “vietata” a noi piccoli, per via delle battute scollacciate e piene di doppi sensi che i giovani si scambiavano, perché era uno dei pochi momenti in cui i due sessi potevano stare insieme, corteggiarsi, o prendersi bonariamente in giro. Nonostante le levatacce, i milioni di mosche, e zanzare, che non ci davano tregua, quelle estati lontane occupano un posto speciale nel mio cuore. Le arrampicate sugli alberi per catturare le cicale, le caccie notturne alle lucciole, ma soprattutto il ricordo struggente di quel senso di totale sicurezza che provavo in quelle notti estive sotto al pergolato, quando, sfinito e assonato, in grembo a mia madre o mio padre, scivolavo dolcemente tra le braccia di Morfeo.
 
Mario Volpi 10.7.22
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