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Sezione a cura di Mario Volpi
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Uno strano fantasma

Racconti
Spetta/Le Redazione
Consultando vecchi manoscritti, si evince che anche nella buia Era medioevale l'amore tra i sessi era ben vivo e vegeto. Ecco un piccolo racconto  di quanto accaduto cinque secoli fa in un paesino di Carrara; Castelpoggio.

Ludmilla aveva ancora gli occhi arrossati dal pianto. Suo padre Ernè ‘l fornar (Ernesto il fornaio) l’aveva duramente frustata con un ramo di salice. Le dolorose percosse le avevano lasciato un segno, che deturpava come un’orrenda cicatrice violacea la pelle delle scapole, di un bianco virgineo. Ora era notte fonda nel paese di Casaponci,(Castelpoggio) e lei raggomitolata nel misero pagliericcio di “cartozzi” di granoturco, cercava di proteggersi alla meno peggio dal freddo pungente, con quei due sacchi di canapa aperti per il senso longitudinale, che il padre gli aveva lasciato come coperta. Per punirla della sua insolenza, dopo averle fatto assaggiare la flessibilità del salice, suo padre l’aveva rinchiusa nel piccolo sottoscala, al buio, su un letto di fortuna, e senza cena. Ludmilla per la verità non era sua figlia. Quando era rimasto vedovo della prima moglie, che la peste se l’era portata via appena sposato, dopo alcuni anni si era riaccompagnato con Verdiana, una buona donna che aveva già una figlia Ludmilla appunto, avuta dal matrimonio con il suo primo marito, morto sul lavoro alle cave di Colonnata. Anche Verdiana era venuta a mancare da più di tre anni, colpita dalla febbre terzana, che aveva contratto forse a Lavenza, e che, dopo un mese di sofferenze, l’aveva portata via, nonostante le cure del cerusico che Ernè aveva fatto venire apposta da Carrara. Ernè estremamente pio e religioso, non si dava pace per questa morte, e incolpava se stesso, maledendo il momento in cui aveva obbligato la moglie, a fare provvista di sale nella malsana Lavenza. Anche se il parroco lo aveva più volte rassicurato, egli temeva un castigo Divino per la prepotenza fatta alla moglie, costringendola contro la sua volontà, a recarsi in quel misero paesino in mezzo a quella fetida palude infestata da miasmi malefici. Ludmila aveva appena sedici primavere, ma il suo corpo pareva non lo sapesse, perché era sbocciato all’improvviso, nella splendida leggiadra bellezza di una donna già fatta. I capelli neri come l’Ebano incorniciavano un viso perfettamente armonico e aggraziato, le labbra rosee, dal disegno perfetto, quando si aprivano al sorriso mostravano il biancore della dentatura, simile a una collana di perle, cosa al tempo non comune. Gli occhi erano scuri, come profondi laghi di montagna, che facevano risaltare le gote, levigate e lisce come pesche mature. Il corpo longilineo, era una sinfonia di curve e rotondità sode e aggraziate, esaltate da un seno alto e prosperoso, la cui sensualità, non era minimamente svilita dalle informi e pesanti tuniche di canapa che il padre le faceva indossare. L’anziano fornaio, pensando di agire a fin di bene, aveva promesso, appena finiti i canonici tre anni e mezzo di lutto per la morte della madre, la giovane figlia in sposa al suo vecchio amico Erbè. Questo era l’agiato padrone di una grossa stalla di oltre cento muli, e dieci mulattieri, che portavano merci di ogni tipo perfino nelle lontane pianure Emiliane. Già molto anziano Erbè era scapolo, perché troppo impegnato a far soldi, come diceva lui ridendo, ma ora, ormai ricco, e stimato, anelava a farsi una famiglia, impalmando una giovane e illibata pulzella di buona famiglia. Quando alcuni giorni fa Ernè comunicò la sua decisione alla figlia, questa scoppiò a piangere. Lui, con una smorfia di compiacimento, pensò che ciò fosse dovuto all’emozione, per il grande onore concessogli. Questa sua convinzione sparì presto, quando la figliastra gli disse che era perdutamente innamorata di Benedè, (Benedetto) un carbonaio che era venuto a Casaponci per fare la stagione delle carbonare. “Me fiola a un’om ner!*”( mia figlia a un uomo nero) tuonò Ernè “ a l’amaz anzi!”(l’ammazzo anzi). “ Tra un mes al finirà ‘l luto, e te t sposerà Erbè, se no a t scozz ‘l zerved.”(tra un mese finirà il lutto e tu sposerai Erbè se no ti spacco la testa.)  Disse perentoriamente l’uomo rivolto alla figlia in lacrime. Da quel giorno tra padre e figlia fu guerra aperta. Benedè, era una gran bel ragazzo, alto e prestante, con i capelli del colore del grano maturo, era originario della Alta Garfagnana dove aveva un piccolo podere di proprietà, ma nel duro periodo invernale, come molti altri, emigrava per qualche mese, verso le zone vocate  alla produzione di carbone come Casaponci, paese a monte di Carrara. Ludmilla lo aveva incontrato alla fonte, dove lei stava attingendo acqua con gli otri caricati sul somarello per rifornire il forno del padre, e lui si stava dissetando, e riempiendo le fiasche per portarle dove si stava facendo la carbonaia. Poche parole e uno sguardo, erano bastati per fare scoccare la famosa freccia dall’arco del dio Eros, che  aveva colpito entrambi i loro cuori. Poi nei giorni successivi, la conoscenza, e l’amore tra i due, si era andato sempre più rinforzando, fino a quando lei ingenuamente confessò la cosa al padre, con le conseguenze che abbiamo appena descritto. Per diversi giorni il padre non la fece uscire, ma poi fu costretto a farlo, per farsi aiutare a svolgere le incombenze del forno. La ragazza in lacrime raccontò tutto al giovane, che dapprima furioso minacciò un’azione di forza, ma poi implorato anche dalla ragazza, disse che avrebbe trovato una soluzione. Una notte, Ludmilla urlando andò a bussare alla porta della camera da letto del padre, che spaventato e mezzo addormentato andò ad aprire. La fanciulla in lacrime raccontò che aveva sognato la madre, che gli aveva detto che se il padre avrebbe osato picchiarla ancora, o forzare la sua volontà di sposare un altro uomo, se ne sarebbe pentito. Con una smorfia l’uomo le allungò un ceffone, e la rispedì in camera sua, dicendogli che egli non era stupido e che non credeva a una sola parola di quando lei aveva detto. Passarono due giorni quando verso la mezzanotte di una fredda e buia notte di gennaio, Ernè udì tre forti colpi contro gli scuri di solido castagno che proteggevano la finestra della camera. Mezzo insonnolito, andò ad aprire la finestra, e ciò che vide lo fece urlare di terrore. Una figura indistinta ballava nell’aia, su di una luce che pareva uscire dal terreno, poi emise una specie di muggito, come se quel suono provenisse dall’Inferno. Era troppo, con un piccolo gemito, l’uomo svenne. Si risvegliò sentendo i colpi alla porta e le urla della figlia, a fatica si alzò ed andò ad aprire.” Padre mio” disse quasi urlando la ragazza, “cosa è accaduto, ho inteso un suono infernale!” “Era davvero l’inferno” rispose l’uomo, facendosi il segno della croce con le mani ancora tremanti, “ho visto un fantasma!” “Padre ma cosa dite! Voi mi spaventate!” rispose la fanciulla. L’uomo sbarrò la finestra e per tutta la notte rimase sveglio, con i denti che battevano. Quando sorse il giorno si recò nell’aia e nel posto dove era apparso il fantasma, trovò un piccolo fazzoletto di lino come quelli che usava la moglie, chiuso a fagotto da un nastrino, con dentro mezza oncia di sale. Inutile dire che Ludmilla alla fine della stagione seguì Benedè sulle sue montagne, dove vissero felici e contenti. Tutto grazie a una lucerna accesa nascosta sotto una pellegrina, un corno, e una manciata di sale.

 Om ner (uomo nero, come in forma dispregiativa erano chiamati i carbonari)
Mario Volpi 6.3.2021
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