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Sezione a cura di Mario Volpi
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Frammenti di ricordi

Racconti

Mestieri perduti

Uno dei capisaldi delle Società più avanzate, è senza dubbio il consumismo. Alcuni economisti ipotizzano che sia proprio questo, che ci permette di tenere un alto tenore di vita, spesso, al disopra delle nostre possibilità. Questa teoria, ha incoraggiato l’industria a produrre una serie infinita di oggetti ”usa e getta”, che per la loro estrema praticità hanno ottenuto un alto gradimento dalla gente. Io non so se questa teoria sia giusta o meno, non è il mio mestiere, e non è questa la sede più appropriata per stabilirlo, so soltanto che appena cinquanta anni fa, era invece imperante una sola necessità; il riciclo.
Era presente un gran numero di artigiani che, ognuno nel proprio mestiere, soddisfacevano questo bisogno, dettato non da fattori idealistici o ecologici, ma molto meno poeticamente da quelli di ordine economico. Alcuni svolgevano il proprio lavoro nella “bottega” come il ciabattino, il vasaio, il falegname, il carradore ecc. mentre altri lo svolgevano in modo itinerante, come arrotini, spazzacamini, calderai, e ombrellai.
Alcuni poi, svolgevano due o più mestieri insieme, spesso l’arrotino era ombrellaio, se non addirittura anche calderaio. Questo era il caso del “Pisano” un arrotino che frequentava il mio quartiere quando io ero molto piccolo. Non ho mai saputo il suo vero nome, perché per tutti era semplicemente il Pisano, così come lui chiamava tutte le donne “spose”, e gli uomini “omo”. Era munito di una massiccia bicicletta che, nella mia mente di bambino doveva avere delle facoltà quasi magiche, per il modo in cui lui riusciva a trasformarla. Era da “donna” come dicevamo noi ragazzi, in quanto al posto del classico telaio munito della canna, ne aveva uno con un doppio tubo che con un’elegante curva scendeva fino alla moltiplica, che era doppia. Sul parafango della ruota posteriore, era montata una grossa cassetta metallica, e due capaci borse di cuoio erano fissate a destra e a sinistra sulla forcella, mentre su quella anteriore era montata la mola. Questa era veramente un’opera d’arte di adattamenti, e merita una descrizione a parte. Sporgeva di poco sopra il manubrio, era grossa circa come un piatto da cucina, e spessa tre dita, era protetta da una cuffia metallica che, sulla parte anteriore soprastante, aveva fissato un vecchio barattolo di salsa di pomodoro, aperto nella parte superiore. Ne usciva un minuscolo tubicino di gomma, tenuto chiuso da un elastico, questo era il rubinetto che faceva cadere a intermittenza sulla mola, quando era in funzione, una goccia d’acqua, necessaria al suo raffreddamento. La ruota posteriore era provvista di un cavalletto ripiegabile, che quando era estratto, permetteva alla bici di stare diritta da sola anche con l’uomo in sella. Da un lato della mola una ruota dentata si poteva collegare con la seconda moltiplica tramite la stessa catena della bici, in modo, che pedalando, si trasmetteva il movimento non alla ruota posteriore, ma alla mola, che sulla sinistra aveva un’altra mola ma questa fatta di panno. Si piazzava strategicamente tra la fontana pubblica e la bottega di generi alimentari, in modo che le donne non avrebbero potuto non notare la sua presenza. Solo dopo capì che il motivo era anche un altro, frutto di anni di esperienza, approfittava del tempo in cui le potenziali clienti prendevano l’acqua o facevano la spesa, per affilare velocemente forbici e coltelli e riconsegnarli. Aveva capito che velocizzando il lavoro aumentava anche il guadagno. Il divertimento maggiore di noi bambini era quando lo chiamavano per riparare i “concon.” Di questo indispensabile recipiente in terracotta, molti delle nuove generazioni, non ne hanno magari neppure sentito parlare, ma era il centro delle attività domestiche di quei tempi, ci si faceva il bucato, vi si lavavano i figli più piccoli, e molto spesso era usato come riserva d’acqua per l’uso giornaliero. Era un recipiente di forma troncoconica, alto circa un metro, e con la bocca più larga di circa ottanta centimetri, la parte interna era smaltata con una vernice verde, per renderlo impermeabile, pur essendo molto massiccio e pesante, era purtroppo soggetto a rotture, cosa che era vissuta dall’intera famiglia come un lutto, visto il suo costo non indifferente; ma qui entrava in gioco il calderaio. Il Pisano, dopo avere staccato la cassetta metallica dalla sua bici, si avvicinava al concon. Dopo una rapida occhiata, prendeva i cocci, e fischiettando cominciava a segnare dei punti su di essi con una grossa matita da falegname che metteva dietro l’orecchio destro, quindi estraeva il “violino” e qui il mio cuore cominciava a battere forte. Il violino era un trapano rudimentale, tirando e mollando a due mani una cordicella arrotolata sul suo fusto, si trasmetteva il moto alternato a una punta di ferro che forava la terracotta del concon, questa incombenza era un onore ambito da molti dei bambini che si riunivano per vederlo lavorare, e ognuno in cuor suo sperava di essere il prescelto. I fori era fatti a coppie, trasversalmente alla frattura, e ovviamente non erano passanti, ma si fermavano a pochi millimetri dalla parete interna del recipiente, poi con filo di ferro e le pinze creava dei cavallotti della larghezza esatta della distanza tra i fori che aveva praticato, quindi incollava il tutto. Quando chiamava la padrona di casa, diceva sempre la stessa frase “ O sposa li è tornato novo, e ché sò un mago o sò un omo?” Un’altra sua cliente importante era la Fedò, la “bot’gara” (Fedora la bottegaia). Lei aveva sempre una miriade di coltelli da affilare, in più aveva un cuore d’oro, spesso mentre lui era sulla bici che pedalava intento nel suo lavoro, lei gli si avvicinava e gli chiedeva “O Pisan, avet ‘nzà magnat?” (O Pisano, avete già mangiato?) al che lui invariabilmente rispondeva “U nù avuto tempo!” Allora lei tornava fuori con un pezzo di pane e un pacchetto fatto con la carta gialla e diceva” A vi ho mis un toch di maligat, e un culet d testa in casseta, a sper che i sibi asà” (vi ci ho messo un pezzo di buristo, e la parte finale della soppressata, spero che vi basti), al che lui invariabilmente rispondeva “E liè anche troppo! Un si vive mica solo per mangià!” E poi ridendo tornava a pedalare. Io dalla finestra di casa mia potevo vederlo quando, finito il lavoro, si recava sotto il gigantesco albero di fico che in estate ombreggiava la fontana pubblica e il marciapiede. Piazzava la bici sul cavalletto, e dopo essersi lavato le mani, apriva il pacchetto della Fedò, e lo stendeva sul coperchio della cassetta dei ferri, quindi cavava di tasca il coltello da innesti, con il manico di corno di cervo, che affermava “aveva morto proprio lui,” tagliava il pane, e cominciava a mangiare, con una soddisfazione e una flemma, che io a distanza di decenni non ho dimenticato. Con gli ombrelli era un vero mago, al tempo erano molto usati dei giganteschi ombrelli verdi, con le stecche di bambù, lui non solo riusciva a cambiare totalmente la tela quando era strappata o troppo logora, ma riusciva anche a impermeabilizzarli perfettamente con una miscela “segreta” a base di olio di lino, che stendeva con un pennello sull’ombrello aperto. Ma la sua specialità era riattaccare i manici a pentole e casseruole in alluminio. Aveva capito che per applicare un paio di ribattini, non poteva certamente chiedere una fortuna, così ebbe il colpo di genio, che lo differenziava totalmente dagli altri calderai. Dopo avere fissato il manico, metteva una pasta misteriosa sulla mola di panno ( solo molti anni dopo capì che era una pasta abrasiva) e molava completamente tutta la casseruola, che in pochi minuti splendeva più di quando era nuova. Dal punto di vista funzionale l’operazione era perfettamente inutile, ma la “sposa” piacevolmente stupita, non stava a lesinare le trenta o quaranta lire in più.
Erano tempi difficili, e certamente nessuno li rimpiange, quegli antichi mestieri divenuti inutili, si sono perduti per sempre, in nome di un consumismo e un progresso selvaggio. In cambio oggi abbiamo giganteschi problemi di ordine ambientale, lo smaltimento di sostanze inquinanti tra cui la plastica, il mare, e i fiumi, diventati fogne a cielo aperto, e l’aria carica di veleni letali, pensante che ci abbiamo guadagnato?


Volpi Mario


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