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Sezione a cura di Mario Volpi
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Bella calligrafia

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
In appena mezzo secolo, siamo passati dalla penna col pennino, al touch screen, dimenticando completamente tutto quello che si trovava in mezzo. Che follia!

Durante le festività pasquali, approfittando che i miei tre nipotini erano in vacanza, ho voluto mostrare loro com’ero costretto a scrivere io, quando avevo la loro età. Dalla mia “cassetta dei ricordi, ” dove custodisco gelosamente alcuni oggetti che per me hanno un particolare valore sentimentale, ho estratto il mio vecchio astuccio di legno, con il coperchio scorrevole, che un tempo era parte fondamentale del corredo dello scolaro, e ne ho cavato la mia vecchia penna in celluloide a pennino. Non poteva mancare una boccetta d’inchiostro Pelikan, un vero e proprio reperto archeologico, poi ho chiamato i nipoti, e li ho fatti provare a scrivere “alla maniera degli anni cinquanta.” Il risultato è andato aldilà delle mie aspettative. I bambini non solo si sono impegnati moltissimo a scrivere, nonostante incontrassero non poche difficoltà, anche nell’impugnare al verso giusto la penna, ma mi hanno subissato di domande, come ad esempio “come si faceva se si sbagliava una lettera?” Così gli ho mostrato la gomma che si usava al tempo, composta di due parti colorate in modo diverso, dove la parte rossa più dura, era usata per cancellare l’inchiostro, e la bianca più tenera per la matita. Gli ho anche raccontato, che non era inusuale, almeno per i bambini di prima e seconda elementare, bucare il foglio “mentr a s scassav,” come si chiamava l’operazione di cancellatura in dialetto. La penna col pennino non era la stessa delle elementari, probabilmente finita “mangiata” com’era consuetudine che i bambini facessero alle elementari, ma quella che usavo “all’Avviamento,” come si chiamavano al tempo gli Istituti Professionali. Io ho frequentato quello a indirizzo commerciale, che tra le varie materie insegnava, Stenografia, Dattilografia, e dulcis in fundo, Calligrafia. Si cominciava con l’insegnare a impugnare correttamente la penna. Il mio professore diceva che doveva essere come se fosse appoggiata su di un “carretto, dove il pollice e il medio erano le ruote, e l’indice le redini.”
Si passava poi allo studio delle lettere tratte dai “lapidarium romani” ossia lo stampatello. Ovviamente era importantissimo perfino il colore dell’inchiostro a seconda di cosa trattasse la scrittura. Si doveva imparare anche i vari “stili” dagli antichissimi Gotico e Rotunda, per arrivare al corsivo italico chiamato Cancelleresca, per finire con il più noto e svolazzante Corsivo Inglese. Un capitolo a parte era quello dei pennini. In quel tempo infatti, si cercava non solo d’insegnare la tecnica della bella calligrafia, ma anche di fare imparare a una platea di ragazzini che a stento parlavano l’italiano, i vari nomi degli strumenti che sarebbero andati a usare. Così ci dissero che la penna si chiamava cannuccia, e che i pennini erano di vari tipi, che si distinguevano tra loro con il nome del loro inventore o produttore, come il Mitchell, il Braus, o lo Speedball. Ma per noi erano semplicemente, a vanga, a lancia o a campanile. Per la maggior parte di noi, le ore di calligrafia erano dedicate alle sfide col compagno di banco, fatte con la penna munita di pennino a campanile, a chi faceva centro, lasciandola cadere in perpendicolare ovviamente senza farci scorgere dal professore, su un foglio di carta con una X disegnata, posto tra i nostri piedi, sulla pedana di legno dove appoggiava il banco a due posti. Oggi, l’insegnamento di questa materia appare quasi patetico, ma si pensi che fin oltre la metà degli anni ottanta negli uffici Anagrafe, Comunali italiani, si doveva ancora registrare a mano, e in bella calligrafia, la morte, i matrimoni e le nascite dei cittadini. Il calligrafo era un mestiere molto considerato, ricercato non solo dalle grandi Aziende, ma anche un libero professionista che lavorava a chiamata per le Edicole, che al tempo erano numerosissime. Queste, vendevano, oltre alla preziosa carta per eventi speciali, anche chi era in grado di “farle.” Il calligrafo, doveva scrivere con il carattere scelto dal cliente, le partecipazioni di nozze, di comunione, diplomi e lauree varie, ma soprattutto era richiestissimo per dipingere insegne, o vetrine, specialmente per feste importanti come Pasqua o Natale.
 Con l’avvento della stampa a linotype prima, e con il computer poi, questo mestiere e gradatamente caduto in disuso. O meglio, oggi è una vera e propria arte che sforna opere grafiche, e miniature pregiatissime. Non ha caso in quel di Milano esiste l’Associazione Calligrafa Italiana, che cerca di promuovere e rilanciare quest’antica arte dello scriver bene, organizzando corsi di calligrafia, che come insegnanti hanno delle vere e proprie star di quest’ affascinante e semisconosciuto mondo letterario. Non so se in questo frenetico mondo digitale dove anche la macchina per scrivere è diventata obsoleta, la bella calligrafia avrà ancora un futuro. Io lo spero vivamente perché come tutte le cose belle, per evolvere e diventare tali, hanno impiegato secoli, mentre il “progresso,” le ha trasformate in “archeologia” nel tempo di un battito di ciglia.
Mario Volpi 30.4.22

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