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Una primavera rubata

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
questa pandemia  ha rubato a molti la vita, e cambiato in tutti noi il modo di vivere quotidiano. Così, molte abitudini, e i ricordi abbinate ad esse, sono svaniti, per qualcuno di noi ... forse per sempre.

Il 2020 sarà certamente ricordato, come l’anno della “pandemia.” A noi, uomini moderni e molto tecnologici, questo evento ci ha colto completamente di sorpresa, perché nessuno di noi avrebbe mai creduto che tutto il mondo sarebbe stato messo in ginocchio da un virus, proprio come in epoca medievale. Questo a dimostrazione di come, nonostante tutta la nostra ricercata tecnologia, la permanenza della razza umana sul pianeta sia ancora abbastanza precaria. Il numero dei contagiati fa tremare le vene dei polsi, mentre i decessi, ormai si contano a decine di migliaia, e per cercare di fermare l’avanzata assassina di questo nemico invisibile, c’è una sola arma; la quarantena volontaria di tutta la popolazione. Questo purtroppo implica delle rinunce e dei sacrifici, sia fisici, che economici straordinari, di cui ancora non sappiamo la durata, e soprattutto la loro influenza sulla nostra vita futura. A quelli come me di una certa età, il virus, non solo ci ha tolto il sonno terrorizzandoci per la paura di essere contagiati, ma soprattutto, ci ha rubato la primavera, e non è detto che siamo certi di vedere la prossima. Memore della mia infanzia, già a metà gennaio, meglio se dopo qualche bella gelata, andavo “per erbi” come si dice in dialetto carrarino. Anche questa pratica millenaria, mi è stata insegnata da mia madre, e un tempo era una risorsa importantissima per il sostentamento della famiglia, tanto, che occorreva chiedere il permesso al proprietario del terreno per poterla praticare. Si raccoglievano erbe spontanee, di cui ancora oggi, conosco solo il nome dialettale, come Ginestrello, Castracane, Raponzolo, e via dicendo. Le varie erbe erano raccolte, a mano a mano che la primavera avanzava, stando ben attenti a non raccogliere quando “mettevano, ” ossia fiorivano, perché alcune diventavano addirittura tossiche. Così erbe come il “falso asparago, ” ossia il Bruscandolo, il Crescione, la Borraggine, la Piantaggine, e per ultimo verso maggio il Tarassaco, o “piscialetto” com’era chiamato in dialetto, si trasformavano in gustose zuppe o frittate, ma soprattutto nella mia pietanza preferita; la “polenta ‘ncatnata” (polenta incatenata). Questo era un piatto unico, e si faceva specialmente alla sera per cena, perché la sua preparazione era assai laboriosa. Dopo aver pulito e lavato gli erbi, si sbollentavano per pochi minuti. Intanto nel paiolo attaccato alla catena del camino, si facevano bollire la quantità necessaria di fagioli, “dall’occhio” o Borlotti, secondo quello che si aveva a disposizione. Poi, quando erano quasi cotti, nella stessa acqua si mettevano gli erbi. e la farina necessaria, gettata gradualmente, mentre noi “ragazzi” eravamo addetti a girarla con il “puntone,” un pezzo di legno di fico o salice, perché non lasciava odori. Si consumava molto lenta, condita con un filo di olio extravergine d’oliva e una spolverata di parmigiano Le “strolghe,” le cosiddette “streghe bianche,” era nel periodo primaverile che si recavano a raccogliere erbe medicinali, lungo fossi, o nelle “piane” in collina, che poi mettevano a seccare, o trasformavano in tisane, decotti, o impiastri, per curare, assolutamente gratis, chiunque nel vicinato avesse bisogno delle loro cure. Purtroppo, quest’antica sapienza millenaria è totalmente scomparsa in pochissimi anni, fagocitata da una “modernità” che credeva che l’erboristeria, fosse retaggio di un superstizioso e obsoleto passato. Piante spontanee come l’Acetosa ad esempio, oltre ad essere ottima in cucina, era un vero toccasana per molti disturbi, addirittura usata in Era medievale per curare la Peste e il Colera. Nel mese di marzo, si scatenava, nelle impervie e ripide pietraie esposte al sole, la caccia al gustosissimo asparago selvatico. Questo, altro non è che i nuovi rami dell’Asparagina, che noi ragazzi spronati dalle madri, cercavamo con accanimento, perché si pregustava il loro delizioso sapore nella frittata. Arrivati a casa, la mamma metteva un foglio di carta gialla sul tavolo, e poi ci nominava sul campo suoi aiutanti. Si prendevano gli asparagi dal mazzo uno a uno, e con il pollice e l’indice, si rompevano in piccoli pezzi, fino ad arrivare al duro del “legno” che si metteva da parte. Quando si finiva, i “legni” erano messi a bollire per venti minuti per fare una tisana che faceva bene “alla vescica,” come diceva la nonna, al tempo non si sprecava nulla. Nello stesso periodo vi era un’altra ricerca, molto più faticosa, ma anche più redditizia, che comportava però, un minimo di attrezzatura. Questa, consisteva generalmente in un pezzo di tondino da costruzione, appiattito sui binari dal passaggio della “marmifera,” per trasformarlo in una rudimentale vanghetta. Si partiva appena faceva giorno, quasi si temesse che i Porri, e gli Agli selvatici potessero fuggire. Si cercavano quelli più grossi, e con l’aiuto della vanghetta si estraevano dal terreno senza danneggiarli, con un coltellino si toglievano le radici, e si “svestivano” dal primo velo per togliere la terra. Si tagliavano anche le foglie a un palmo dalla testa e si riponeva nel sacchetto di tela che portavamo a tracolla. Poi a casa la mamma pensava a cucinare la testa cruda con l’insalata, o cotta con gli erbi e i fagiolini dall’occhio, e se si era proprio fortunati, anche con una mezza salsiccia, mentre i gambi dopo essere stati rosolati erano trasformati in una deliziosa frittata. Con l’avanzare della primavera si finiva a giugno con la raccolta di cicorie e bietole selvatiche.  Il maledetto virus mi avrà rubato una primavera, ma non potrà mai rubare dalla mia memoria questi teneri ricordi, retaggio di un passato, dove la vita era certamente molto più dura di adesso, ma tutto era ancora a misura di bambino.

Mario Volpi
02.04.2020
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