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Sezione a cura di Mario Volpi
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La morte nera

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Ci risiamo! La globalizzazione selvaggia senza controllo ha fatto un'altra vittima illustre! Ma quando capiremo che non è questo il modo di concepire il progresso?

Il bacino del Mediterraneo, è caratterizzato da una vegetazione specifica, endemica del luogo, che non a caso è chiamata “macchia mediterranea.” Uno dei principali esponenti di questa massa verde è il Ficus Carica, ossia il fico comune. Notissimo fin dall’antichità, era addirittura considerato da molte civiltà, come frutto sacro. I greci lo associavano a Priapo, dio della fertilità, mentre i romani, oltre a considerarlo afrodisiaco, credevano che fosse stato proprio un albero di fico a fermare la corsa della cesta di Romolo e Remo sul Tevere, ecco perché era considerato il simbolo della fondazione di Roma. Il fico è anche frequentemente citato nelle tre principali religioni monoteiste, in quella cristiana poi, e proprio una delle sue foglie a coprire le nudità di Adamo ed Eva appena scacciati dal Paradiso terrestre. Aldilà della mitologia e dal misticismo religioso, questo frutto, è stato uno degli artefici della sopravvivenza della razza umana. Ricchissimo di zuccheri, carboidrati e vitamine, ma povero di grassi, è stato per millenni uno dei principali alimenti dell’umanità. Facile da conservare, con la semplice esposizione ai raggi del sole, in epoche più recenti, si è imparato a eseguire la sua essicazione in ambienti controllati, come i primi forni in terra battuta, che oltre a migliorarne il grado di umidità, impedivano agli insetti di contaminarlo, durante la sua esposizione, spesso in modo irreversibile. Pianta estremamente rustica e resistente, il suo “latte” forma una barriera chimica contro gran parte di muffe e batteri che in natura potrebbero attaccarlo. La ”vitalità misteriosa” del fico però non finisce qui. Nel periodo giugno-luglio, alcune piante di fico producono un vero e proprio oggetto misterioso; il delizioso fiorone. Chiamato dai botanici Siconio, questo, che in apparenza sembra un frutto, è in realtà un fiore contaminato. Anche se sembra impossibile, questo è il risultato della simbiosi millenaria tra il fico, e un piccolo insetto, con il nome scientifico impronunciabile, simile a una piccola vespa. Durante i mesi invernali, quest’insetto depone le uova nei futuri frutti di fico, che si svilupperanno come fioroni. Ora purtroppo, questa pianta meravigliosa, è in serio pericolo, come il solito per colpa di una selvaggia “globalizzazione.” Un insetto asiatico, il Punteruolo Nero, comparso in Toscana nei primi anni del 2000, forse importato incautamente con una partita di orchidee, depone le sue uova all’interno del tronco del fico. Le larve, quando nascono si nutrono del suo legno, scavando gallerie, che interrompono l’afflusso di acqua e sostanze nutrienti portando l’albero alla morte. A oggi, non esiste cura contro questa “morte nera”, e visto lo scarso interesse commerciale che ha oggi il fico, penso che presto sarà a rischio di estinzione. A testimonianza di ciò, nei vigneti e uliveti, anche questi ormai purtroppo, incolti e abbandonati, sono tantissimi gli esemplari di fico morto. Ciò ha già causato un effetto domino, che solo uno della mia generazione, è in grado di comprendere; la scomparsa quasi totale di alcuni uccelli “specializzati, ” o per meglio dire, simbiotici con il fico. Il principale di essi è il Rigogolo, in dialetto “sgarber.” Grande come un merlo, è molto appariscente, perché il maschio è di un bel colore giallo, con la coda nera, mentre la femmina è tutta gialla. Molto ghiotto di frutta, è un migratore, che arriva da noi proprio in concomitanza della maturazione della frutta soprattutto fichi. L’altro è il Beccafico, che a dispetto del nome non mangia i fichi, ma gli insetti, che su un albero di fico, con i frutti maturi sono milioni. Queste due speci d’uccelli al tempo in cui ero bambino, erano aspettati con ansia. Anche se oggi sarebbe considerata, e con ragione, una pratica immorale, io, per dovere di cronaca devo raccontarla, anche se, prima di bollarla come crudele, c’è da considerare il periodo di estrema miseria in cui era praticata. Quando ero molto piccolo, le piante di fico, erano moltissime, ben curate, e vigilate dai proprietari dei terreni, perché considerate delle vere e proprie “botteghe alimentari” a costo zero. Ebbene, nel periodo della maturazione dei fichi, il ” nonno di casa, ”ossia colui, che per raggiunti limiti di età, o per invalidità non poteva più svolgere lavori troppo pesanti, aveva un compito; quello della caccia ai beccafichi. Questo per due ragioni, la prima. salvare i frutti dai becchi degli altri uccelli, e la seconda, forse la più importante, fornire un po’ di proteine gratis alla famiglia. Nulla era lasciato al caso. Già nel mese di maggio, si preparavano le “mezze cartucce.” Queste erano cartucce per fucile da caccia, di solito in calibro sedici, con dose dimezzata, sia di piombo, che di polvere, per non danneggiare l’albero, ma soprattutto non polverizzare la preda, lo spazio all’interno rimasto vuoto, era riempito con la crusca, per riutilizzare il bozzolo senza doverlo accorciare. Il “cacciatore di casa, ” tagliava col “pennato, ” qualche ramo, di solito dall’inutile Sambuco, per improvvisare un rustico capanno sotto la pianta di fico, quindi restava in attesa. I piccoli beccafichi, erano attratti dai nugoli ronzanti d’insetti, e quando l’uccello era in posizione adatta, un colpo attutito, simile allo sbattere delle mani, metteva fine alla sua esistenza. Se si era fortunati, anche tre o quattro sgarberi più “in carne” andavano a infoltire il carniere che la sera poteva arrivare a una trentina di uccelli. Dopo averli spiumati, senza togliere le viscere, s’infilavano in un fiasco senza la veste di paglia, che poi si poggiava sulla cenere calda del camino, avendo l’avvertenza di girarlo continuamente, per non fare spaccare il vetro. Dopo un paio d’ore, all’interno, vi erano solo le ossa ormai spolpate dei beccafichi, mentre la carne si era trasformata in un delizioso “brodo-sugo” naturale, che era versato con parsimonia su una fetta di pane casereccio preventivamente tostata, con un pizzico di sale, era una vera e propria leccornia. Il legno di fico, per la sua resistenza e leggerezza, era usato per costruire le “gambe di legno, ” ossia protesi rudimentali, che sono state utilizzate moltissimo nel massacro delle Prima Guerra Mondiale, consentendo a un numero elevato di persone senza una gamba, di condurre una vita quasi normale. Per noi piccoli, in tempi in cui l’igiene personale non era una priorità, il latte di fico, serviva a “bruciare” le frequenti verruche sulle mani e sui piedi, dovute all’andar scalzo, ma soprattutto per la poca dimestichezza con l’acqua, al tempo un bene prezioso. Ai primi di settembre, quando si giudicava che i fichi fossero al culmine della maturazione si passava alla raccolta, sia delle varietà bianche, che quelle nere. Si aprivano a metà, e si mettevano al sole su dei graticci di canna a seccare. Quando erano appena avvizziti, di sera, “ a veglia, ” la mamma, e le donne del vicinato li richiudevano, mettendo al loro interno un pezzo di noce, o di nocciola, che noi ragazzi avevamo preventivamente sbucciato, poi pressati con un peso di marmo in un cestino di vimini, erano posti accanto al camino per completare la seccatura, e conservati per l’inverno. Ora a causa di un “alieno nero” questo miracolo vegetale rischia di scomparire per sempre, e qualcuno lo chiama, “progresso!”

Mario Volpi 26.07.2020
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