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Sezione a cura di Mario Volpi
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Giochi pericolosi

Una Volta Invece
Spetta. Le Redazione
 
Meno di sessanta anni fa, i giochi dei bambini erano talmente cruenti e pericolosi che purtroppo molti di loro ne hanno portato le cicatrici per tutta la vita. Nonostante tutto, però, quello che ti insegnavano, come scuola di vita ne compensava certamente i rischi.

Madre Natura, ha stabilito che i cuccioli dei mammiferi, per prepararsi alla futura vita di adulti, debbano acquisire esperienza e destrezza con un’attività basilare per la loro formazione; il gioco. A questa ferrea regola non sfuggono neppure i cuccioli d’uomo, che però, essendo dotati di una maggiore intelligenza, usano dei giocattoli. In Italia, negli anni cinquanta del novecento, con il secondo conflitto mondiale appena finito, non erano certamente i giocattoli per i figli la priorità di ogni famiglia. Le uniche cose che a quei tempi abbondavano, erano la miseria, e i bambini, di ogni età, che scorrazzavano per l’unico parco gioco disponibile; la strada. I giochi, e i rispettivi giocattoli, erano tutti autarchici, costruiti e pensati da noi, con materiali di facile reperibilità, e usati, con l’abilità, e l’intelletto di un bambino di dieci anni. “Lo scherzo” era assai frequente, fatto senza malizia, e a cuor leggero, non capendone bene neppure le conseguenze. Quello più comune era fatto durante il gioco del pallone. In quei tempi economicamente tristi, anche un semplice pallone era un lusso introvabile, perciò si ricorreva a un surrogato, costituito da una palla di carta di giornale, tenuta insieme da parecchi giri di “rafia,” rubata a Orè l’innestino. E’ evidente che con un simile pallone era possibile giocare usando solo le mani e la testa, perdeva chi faceva cadere a terra il pallone. Lo scherzo consisteva nel mettere all’interno del pallone un grosso sasso, e dopo aver fatto un rapido scambio tra complici, si lanciava verso il compagno più distratto urlando “testa!” Lascio a voi immaginare il risultato, spesso con il bambino lasciato per terra svenuto mentre tutti scappavano terrorizzati. Altro classico scherzo si faceva giocando a “bombia.” Questo gioco è in pratica una variante di nascondino. Si disegnava un piccolo cerchio a terra, poi si faceva la conta a chi doveva “stare sotto,” quindi si lanciava il più forte e lontano possibile, un barattolo vuoto, e mentre il prescelto andava a recuperarlo, tornando indietro camminando all’indietro, tutti correvano a nascondersi. Quello sotto doveva andare a cercarli, e quando ne trovava uno si faceva una corsa verso il barattolo che era posto in piedi in mezzo al cerchio, e doveva gridare “bombia” seguito dal nome, e porre il piede sul barattolo. Mentre se arrivava prima quello trovato, dava un gran calcione al barattolo, e mentre il malcapitato andava a recuperarlo lui poteva tornare a nascondersi, Succedeva spesso che quello sotto si scocciasse, e ”per scherzo” nascondesse sotto al barattolo un ruzzolone di marmo. Immaginate come si conciava il piede del poveretto che gli dava un calcio in piena corsa. Altro periodo pericoloso, per l’integrità fisica di noi bambini era quello sotto le festività Natalizie. In quei tempi in farmacia si vendevano le pasticche di Potassio per curare il mal di gola. Purtroppo, qualcuno si era accorto che il Potassio, mescolato con lo Zolfo, diventava una miscela esplosiva, che bastava un urto per farla detonare. Come accade spesso, forse casualmente, ci si accorse si che una piccola quantità di Salnitro e Carbone rendeva il botto ancora più potente. Il Salnitro era raschiato dall’umidità dei ponti della ferrovia, mentre per il Carbone non vi erano problemi. Quello che noi ignoravamo completamente, era che quella miscela creata in modo empirico era in realtà diventata un’autarchica ma micidiale polvere da sparo, assai più potente di Zolfo e Potassio. Così, molto spesso, quando si dava il calcio con il tacco, alla piastra di marmo con sotto il composto, il contraccolpo fratturava il tallone. La fionda invece era detta la “tira orbi,” per via dei molti bambini che a causa di fiondate, tirate per gioco, avevano perso un occhio. Pericolosissimo, anche se molto ricercato per la sua rarità, era l’arco, e le frecce fatte con le stecche di ombrello. Un vecchio ombrello in verità, al tempo, era merce rara, visto che gli ombrellai sostituivano praticamente ogni pezzo, ma non la tela, che quando era irrimediabilmente inservibile costringeva la gente a sbarazzarsi dell’intero ombrello. Questo vero e proprio tesoro, veniva completamente smontato, facendo attenzione a non storcere le stecche, poi le tre più malandate, erano strettamente avvolte insieme con rafia bagnata. Quando si asciugava le tre stecche erano praticamente diventate un blocco unico. Con due o tre lunghi crini di cavallo intrecciati, presi dalla coda, si tendeva l’arco. Le frecce erano ricavate dalle altre stecche con un’estremità battuta sulle rotaie della ferrovia per farla piatta, prima di sagomarne la punta a “V” sfregandola sul “macigno” (granito) del marciapiede. Queste micidiali frecce, non solo uccidevano rane, e lucertole, ma alcune finivano, “per scherzo,” in cosce e polpacci, di compagni dell’arciere, necessitando l’intervento del Pronto Soccorso dell’allora Civico Ospedale di Carrara. Altro gioco pericoloso erano “i razzetti.” Questi erano la versione autarchica delle moderne freccette. Con le foderine nere, semirigide dei quaderni di scuola finiti, si facevano gli impennaggi, quindi con quattro fiammiferi “scricconi” (zolfanelli) di legno si costruiva il corpo, tenuti fermi con un elastico, e sulla punta si poneva uno spillo. Questi razzetti cadevano sempre di punta, si piantavano in terra, sul legno degli alberi, e purtroppo, pare preferissero in modo particolare gli occhi dei bambini. Il gioco della lippa, poi, con il “picchio” che volava, e il corto bastone che lo doveva colpire, era un vero e proprio “lividificio,” con ematomi sparsi in ogni parte del corpo. Nonostante tutto però, quei giochi collettivi all’aperto, anche se obbiettivamente pericolosi, erano estremamente gratificanti, soprattutto per la soddisfazione che ci davano per essere stati in grado di “costruirli” da soli, cosa che ancora adesso a distanza di decenni, suscita in me una sorta di piacevole nostalgica gratificazione.
 
Mario Volpi 21.9.22
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