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Sezione a cura di Mario Volpi
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Il pan d’una volta

Racconti

Spetta/le Redazione

per millenni, il pane nelle sue forme più svariate ha costituito la base dell'alimentazione delle popolazioni Europee, oggi purtroppo viene sempre più evitato, incolpato ingiustamente di essere un cibo "ingrassante" e quindi da evitare. Nei miei ricordi più cari vi è invece il "fare il pane" di mia madre, operazione vitale per quei tempi, necessaria al sostentamento della famiglia. Ho voluto riproporlo in questa cronaca di un tempo, che oltre a riproporre gesti, e luoghi, ormai scomparsi per sempre, fa ben capire anche la misticità, e il rispetto, che questo alimento ha sempre suscitato nell'uomo, e questo fino a pochissimi decenni fa
Volpi Mario

Alcuni giorni fa, o assistito a una scena che un tempo sarebbe stata inconcepibile, ma che ha contribuito a risvegliare nella mia memoria ricordi lontani, che credevo ormai assopiti, ma che invece si sono riproposti con un'incredibile vividezza.
Alcuni bambini si divertivano a gettare ai passerotti pezzetti di pane, che questi si disputavano avidamente, litigando chiassosamente tra loro, con una confidenza tale da arrivare a pochi centimetri dalle loro mani, cosa che ai miei tempi si sarebbero guardati bene dal fare, anche perché, in quegli anni, molto probabilmente sarebbero finiti come companatico di quello stesso pane, che era appena sufficiente per noi.
La mia vicina di casa era mezzadra in una fattoria vicina, così mia madre, faceva il pane assieme a lei, ogni quindici giorni, usando il forno di quell'antica masseria, io avrò avuto sei o sette anni, e ricordo con nostalgia i preparativi per l'impasto, operazione in cui ero coinvolto come aiutante, cosa che mi riempiva d'orgoglio. La lavorazione iniziava sempre di pomeriggio, perché l'impasto doveva lievitare, coperto da un telo, per tutta la notte, e dopo un'ulteriore lavorazione, anche parte del giorno successivo.
Il mio compito era di setacciare la farina, che prendevo con una grossa mestola di legno, da un sacco di tela che mia madre appoggiava sulla tavola, la crusca che rimaneva, che sarebbe diventata il pastone di galline e maiali, la vuotavo dentro un sacco di juta posato a terra, quando mia madre e Caterina, decidevano che la quantità era sufficiente, il mio compito cambiava, diventavo il "vuota-acqua" ovvero, con la mestola prendevo l'acqua dal bacile di rame, e a richiesta la versavo, mentre loro impastavano.
Ma il momento che mi piaceva di più era quando aggiungevano il lievito madre, in dialetto "'l levam". Per anni quest'operazione è rimasta per me un mistero, non riuscivo a capire cosa servisse, togliere da un barattolo di vetro a chiusura ermetica, quella poltiglia spugnosa che sapeva di acido e aggiungerla all'impasto, non prima di averlo immerso in un poco di acqua tiepida, per "sviarl" (svegliarlo). Non riuscivo a spiegarmi come facesse ad aumentare così di volume quella massa di acqua e farina, senza che nessuno vi facesse nulla. Una volta sospettando che mia madre volesse imbrogliarmi, mi nascosi sotto il lavello di cucina per spiare da lì, il tavolo dell'impasto, ma finì per addormentarmi, a cui seguì un brusco risveglio, per le sberle di mia madre, disperata perché non riusciva più a trovarmi. Prima della salatura un altro pezzo di pasta veniva riposta dentro al medesimo barattolo di vetro, che molto spesso mia madre prestava anche alle vicine, che lo usavano  per fare lievitare gli"sgabei"prima di essere fritti. Molto importante era la forma da dare al pane. Ve n'erano di due tipi; le pagnotte rotonde, e i filoni. Questi ultimi erano usati soprattutto dalle famiglie che avevano il padre, o i fratelli, che lavoravano alle cave, e avevano la necessità di fare colazione sul posto di lavoro e che, per praticità, lo usavano così:  tagliato in due metà, una parte veniva svuotata dalla mollica, e farcito con un poco di tonno sott'olio o, secondo la stagione, anche da pomodori, e persino fichi, quindi dopo aver riposizionato il tappo di mollica, e incartato alla meno peggio con un poco di carta gialla, veniva infilato per il trasporto nella manica del "matalò, (giacca).
Mia madre faceva sia, i filoni, che le pagnotte, che adagiava sulla tavola di legno su cui spianava anche i "taiarin," (taglierini) spolverata con un poco di farina gialla perché non si attaccassero, su quest'ultime vi tracciava sopra una croce con il coltello, primo, perché la crosta non si rompesse, ma soprattutto perché, sia sua madre, sia sua nonna, avevano sempre fatto la stessa cosa.

Dopo un'altra mattinata di lievitazione, chiamava la vicina per farsi aiutare a posizionarsi sulla testa, protetta dal "gualch,"(cercine) la tavola di legno coperta da un telo, e con me al seguito ci recavamo al forno.
Questo era posto in un locale di fianco alla stalla, l'altissimo soffitto era costituito da una serie di archi in mattoni posizionati a lisca di pesce, che secoli di fumo avevano reso più neri del carbone, contro una parete c'era il forno fatto con mattoni pieni posti ad arco, una pesante saracinesca di ferro ne chiudeva la bocca, scorrendo su delle guide posizionale ai lati, e aiutata nel suo movimento di saliscendi da un grosso contrappeso cilindrico di ferro. A fianco, e sotto di esso, vi era la legna da ardere, costituita in prevalenza da fascine derivate dalla potature delle viti. tenute insieme con legature di salice. Alcune di queste, e una manciata di paglia, davano l'avvio all'accensione, che continuava poi con l'aggiunta di rami più grossi, fino a quando la" volta"(soffitto del forno) da nera diventava bianco-grigia, segnalando così che aveva raggiunto la temperatura ideale.
La brace veniva tolta, e il forno pulito dalla cenere, con l'aiuto di uno straccio umido posto su di un bastone, quindi dopo che sia mia madre, sia Caterina si erano fatte il segno della croce, e mormorato una preghiera per me incomprensibile, si procedeva all'infornata del pane, e alla chiusura della bocca.
Dopo circa un'ora si cominciava a sentire nell'aria, un delizioso profumo, dopo una rapida controllata, si sfornavano le pagnotte e i filoni croccanti, e si mettevano in una cesta di vimini che veniva coperta con uno straccio, perche il pane  raffreddasse lentamente.
A quel tempo il pane, oltre ad essere un alimento prezioso, aveva ancora una sua sacralità, nessuno si sarebbe neppure sognato di sprecarlo o buttarlo via, tanto che quando diventava troppo duro per il consumo normale, veniva usato per fare il delizioso pancotto, tipica minestra fatta con  brodo, pane stantio e cipolle, e condita con un filo d'olio d'oliva a crudo, o in estate, l'appetitosa panzanella, composta da pane bagnato, pomodori, cipolle, basilico, origano,  un pizzico di sale, e olio di oliva.
Purtroppo oggi,  il pane è fatto industrialmente, con lieviti chimici, e altri additivi,  ha un sapore che non assomiglia neppure lontanamente a quello di un tempo, e quelli della mia generazione, cresciuti a "pan senza" ( solo pane senza companatico) hanno certamente l'esperienza e la competenza per affermarlo.


Enzo De Fazio

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