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Sezione a cura di Mario Volpi
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Destieri a pedali

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Il lugubre deserto delle nostre strade provocato dalle restrizioni è spesso rotto dal passaggio di folti gruppi di cicloamatori, che portano un briciolo di vita in un Paese che pare morto. Forse inconsapevoli, che proprio come settanta anni fa, i loro destrieri a pedali possano contribuire almeno moralmente alla rinascita dell'Italia.
Neppure il lockdowon imposto dalla pandemia, è stato in grado di far cessare l’afflusso di centinaia di cicloamatori sulle nostre strade. Perfettamente equipaggiati con indumenti “tecnici, ” che nulla hanno da invidiare ai veri campioni del ciclismo, in sella a biciclette ultra sofisticate che costano migliaia di euro, questi emuli di Coppi e Bartali, solitari, o in gruppi anche numerosi, macinano decine di chilometri, compreso arcigne salite, per soddisfare la loro passione. L’industria come il solito non è rimasta sorda a questa nuova “ moda, ” e ha creato delle biciclette che sono dei veri e propri concentrati di alta tecnologia, sia nella meccanica, ma soprattutto nei materiali. La lega di alluminio, ma soprattutto la fibra di carbonio, la fanno da padroni nella realizzazione di biciclette da competizione. L’uso di questi nuovi materiali, ma soprattutto una nuova architettura del telaio, fa si che oltre a una maggior resistenza meccanica, queste biciclette possano avere un peso molto ridotto, tanto da costringere la Federazione Ciclistica Mondiale a stabilire un limite invalicabile di 6,8 Kg. Anche le coperture delle ruote, ossia gli pneumatici, hanno subito un’evoluzione tecnologica straordinaria. Dai primi copertoni degli anni cinquanta, che racchiudevano al loro interno una camera d’aria, si è passati all’uso del tubolare, un tubo di gomma senza giunzioni con battistrada incorporato, da incollare sulla ruota. Il tubolare da competizione è composto di diversi strati di materiali, tra cui nylon, seta, e anche kevlar, usato come anti foratura. Questi nuovi pneumatici si gonfiano a una pressione che varia dai sette, ai nove Bar, secondo il peso del ciclista, e a dispetto del loro ridotto spessore, che varia tra i sedici e i 28 mm, garantiscono al corridore un buon confort, ma soprattutto un’eccellente tenuta di strada, oltre alla bassa probabilità di forature. Cosa dire poi dei cambi. Ormai dotati di molti rapporti leggerissimi, con deragliatori super affidabili, questi dispositivi sono stati ridisegnati per essere ergonomici al massimo, con la possibilità, cambiando anche la corona della pedivella, di sviluppare il massimo rendimento con il minimo sforzo. Anche i freni hanno compiuto passi da gigante, passando dai vecchi tacchetti di gomma, che sfregavano sui cerchioni, ai nuovi freni a disco. L’uso sempre più massiccio della bici da corsa, ha quasi del tutto soppiantato l’utilizzo di quella che un tempo era chiamata “bici da passeggio.” Negli anni cinquanta erano decine i marchi di biciclette fabbricate in Italia. Tutte in acciaio, erano di due tipi, da uomo, e da donna. La differenza tra i due modelli consisteva della forma del telaio, triangolare per l’uomo, e a “culla” per la donna, che le permetteva di salire in sella senza sollevare sconvenientemente la gamba. Pesantissime, erano dotate di vari accessori, come la pompa da fissare sul telaio, e una specie di borsetta posta sotto il sellino, che conteneva i “ferri, ” per togliere il copertone in caso, molto frequente, di foratura. I marchi più importanti e famosi erano: Bianchi, Atala, Bottecchia, Ganna, e Legnano. La Bianchi, a quei tempi la più blasonata, produceva anche un modello importante, chiamato “lusso,” sia da uomo sia da donna. Era verniciata di nero, con delle sottili rifiniture color oro sul telaio e parafanghi, il manubrio era cromato, così come il fanale e la dinamo, mentre le manopole, erano in “vero osso” come diceva la pubblicità. I freni erano azionati da delle stecche di acciaio in sostituzione dei fili, e i copertoni avevano un’elegante fascia bianca. La pedivella e tutta la catena, compreso il rocchetto sulla ruota posteriore, erano nascosti da un elegante carter in lamiera nera, ingentilita dal solito filo color oro. In quegli anni, comprare una bicicletta era una spesa impegnativa, perciò era usata soprattutto per lavoro, e alcune officine erano specializzate nella loro trasformazione. Vi erano bici da fornaio, con la ruota anteriore più piccola e un grosso porta cesta incorporato, quelle abilmente trasformate in mini officine viaggianti, come quella dell’arrotino o del maniscalco. Esisteva poi una serie pressoché infinita di tricicli, con il pianale anteriore ribassato, per fattorini, netturbini, e tutti quegli artigiani che avevano necessità di avere un mezzo per trasportare quello che producevano, o i loro “ferri del mestiere,” come i falegnami, imbianchini, i garzoni di bottega e i venditori ambulanti. Tra tutti, quello che da noi bambini era il più amato, era certamente il carretto dei gelati. Montato su una bici a triciclo, era di legno dipinto di bianco, con un enorme cono gelato disegnato sulle due fiancate, aveva il frontale come la prora di una nave. Nella parte superiore vi era una teca di vetro e acciaio cromato, che conteneva le cialde, mentre un elaborato coperchio conico lucente, copriva il contenitore del gelato. Al suono del corno, chi possedeva le dieci lire necessarie per il gelato più piccolo, si precipitava in strada, e si metteva in coda con gli altri bambini aspettando che il gelataio, con un attrezzo particolare, gli consegnasse quel delizioso e minuscolo “mattoncino,” di gelato tra due sottili e croccanti cialde. Essendo ancora nullo l’apporto dei Media, il solo ciclismo che noi “vedevamo” dal vivo, era quello delle innumerevoli corse dilettantistiche che al tempo si correvano in estate, sulle strade ancora “bianche,” piene di polvere e di buche. I corridori, seguiti da qualche rara moto Guzzi, passavano con le camere d’aria a mo’ di bandoliera, sulle pesanti maglie di cotonina, con il viso irriconoscibile, perché coperto da una vera e propria maschera di polvere e sudore. Proprio per questo, anche noi piccoli, facevamo “servizio assistenza,” preparando prima del loro passaggio, secchi pieni d’acqua, che poi i “grandi” buttavano loro addosso per rinfrescarli. Oggi la bicicletta è stata relegata al solo aspetto ludico della nostra vita, e quasi a volergli togliere quel mito di fatica provocata dal suo uso, è nata anche la versione elettrica a batteria. Pochi sono consapevoli però, che solo grazie all’uso di quest’umile destriero d’acciaio, che l’Italia si è potuta risollevare, e ricomporre quel tessuto sociale ed economico che la guerra aveva azzerato, una ricostruzione insomma, avvenuta letteralmente con … i piedi.
27.12.20 Mario Volpi
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