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Una calda riccorenza

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Oggi com'è cambiato il modo di “sentire la festa” da parte delle persone, ma io penso, che quelle sensazioni, anche se estremamente semplici, fossero la vera essenza del sentirsi in pace con il mondo, e un tutt’uno con la natura.
E i tuoi “soli leoni” com'erano?

Ferragosto una calda riccorenza
Ferragosto è una festività pagana, la cui origine risale addirittura all’Imperatore Augusto, nata per festeggiare la fine dei lavori più faticosi nei campi, è stata trasformata nel corso dei secoli, a vera e propria icona delle ferie estive.
In verità agosto, è da sempre il mese “vacanziere” per eccellenza, e questo anche quando io ero bambino, periodo in cui, in Italia, non erano certamente le ferie, in cima alla lista alle priorità della gente. Con la mietitura, e successiva battitura del grano di fine luglio, i lavori nei campi erano terminati, così il mese di agosto, con i suoi famosi,”soli leone”, era dedicato ad attività più piacevoli, molte delle quali coinvolgevano anche noi “piccoli,” come la pesca delle rane nelle ore notturne.
Anche se era praticata soprattutto per procurarsi proteine a costo zero, quest’attività era molto gradita da noi piccoli, perché ci permetteva, una volta tanto, di stare più vicini a padri, nonni, o fratelli maggiori, di solito impegnati nei lavori agricoli. Armati di una canna preferibilmente di bambù, cui era fissata una lenza di spago che terminava con un fiocchetto di lana rossa, si perlustravano, fossi e canali, in religioso silenzio, con passi felpati, e quando alla fioca luce della lampada a carburo si vedeva una ranocchia, si faceva saltellare l’esca davanti alla bocca, fino a quando lei, con un rapido salto abboccava. Un rapito strattone, e la rana finiva nell’ombrello aperto, tenuto capovolto. Qui, purtroppo, avveniva una cosa, che ora sarebbe giudicata di una crudeltà inaudita, ma che al tempo si faceva senza pensare, perché così ci era stato insegnato da generazioni. Per evitare che la rana potesse fuggire dal “capagno” coperto con un cenci, gli si rompevano le gambe. Anche la pesca delle anguille dopo un forte temporale estivo, era praticata di notte, ma lì si usava la “mazzacora” ossia un mazzo di lombrichi legati con uno spago. Queste pesche procuravano delle vere e proprie leccornie gastronomiche, che facevano amare ancora di più il mese di agosto. Le afose serate agostane erano passate all’aperto, nell’aia, con tutto il vicinato, al fresco sotto al glicine, che con i sui tralci ritorti, aveva ingabbiato in una morsa ormai in districabile il vecchio pergolato in legno. Spesso vi si cenava anche, e la parte del leone la faceva il cocomero, tenuto in fresco nel pozzo. Ma era il dopocena che noi bambini si attendeva con ansia, dove ci si scatenava in gigantesche cacce alle lucciole, che a milioni punteggiavano la notte stellata, con la speranza, (sempre risultata vana) che messe sotto a un bicchiere si trasformassero in soldini. Anche i ragazzi più grandi, adoravano agosto, perche, le ragazze, finalmente libere dalle incombenze domestiche, erano libere di uscire nell’aia. Così, complice la notte, il dolce tepore dell’aria, la luna splendente, gli accoglienti e discreti pagliai nascondevano spesso questi fugaci e rapidi incontri clandestini, i cui frutti si vedeva però, nel mese di aprile, quando dopo nove mesi esatti, la cicogna, spesso, non proprio benvenuta, bussava alla porta di molte ragazze. Il giorno quindici poi, era festa vera. La fattora, come voleva la tradizione, affogava e puliva tutti i piccioni nati nel mese di luglio, e tenuti a “diserbarsi” in una gabbia a parte, e dopo aver scaldato il forno per fare il pane, li adagiava in un gigantesco tegame di terracotta, che poi metteva ad arrostire nel forno rovente. In quell’occasione faceva anche una focaccina speciale, che era insaporita con olio sale, rosmarino, salvia, e il sugo di due o tre piccioni lasciati a consumarsi a fuoco lento per quella bisogna.
Oggi quei giorni sono lontani, così com’è cambiato il modo di “sentire la festa” da parte delle persone, ma io penso, che quelle sensazioni, anche se estremamente semplici, fossero la vera essenza del sentirsi in pace con il mondo, e un tutt’uno con la natura.

Mario Volpi
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