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Sezione a cura di Mario Volpi
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La pellicola

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
"Nulla è per sempre" recita un vecchio adagio, e in questo caso mai frase profetica fu più azzeccata. Il progresso avanza come un rullo compressore schiacciando inesorabilmente chi non riesce a "spostarsi!"

C’era una volta … la pellicola!
Al giorno d’oggi, penso che nulla sia più facile che scattare una foto. Ognuno di noi possiede un telefonino, che è in grado di scattare un’immagine digitale spesso anche in grande risoluzione.  Oltre ad essere subito fruibile sul display, quest’immagine, è anche possibile spedirla istantaneamente in ogni parte del globo. Soltanto trenta anni fa, questa possibilità sarebbe stata considerata pura fantascienza, scaturita dalla fervida immaginazione di qualche scrittore. Per le nuove generazioni vorrei raccontare come era considerata la fotografia appena subito la fine del secondo conflitto mondiale. Il fotografo oltre ad essere a tutti gli effetti un mestiere, era visto dalla gente come una specie di misterioso stregone, capace di fare cose mirabolanti. Premetto che avere una foto era abbastanza costoso, e quindi la si faceva solo per le grandi occasioni, come un matrimonio, quando il figlio maggiore entrava a fare parte di qualche corpo militare, oppure per immortalare i figli di qualche nobile e ricca famiglia. Si prendeva appuntamento con il fotografo e ci si recava al suo negozio, dove di solito vendeva anche occhiali. In una specie di studio sul retro, vi erano i suoi ferri del mestiere, ossia una sedia “importante” di solito in stile rococò, ridondante di smerli dorati, una finta colonna di marmo, di legno, e spesso anche un cavallo a dondolo, montato però stabilmente su un solido piedistallo. Se si doveva fotografare la coppia di sposi, la donna era fatta accomodare sul trono, e il marito in piedi accanto a lei. Se invece era il militare da immortalare, lo si faceva appoggiare alla finta colonna, e infine per il pargolo, lo si metteva sul cavallo. Il fotografo poi si poneva dietro una monumentale macchina fotografica di legno, montata su un grosso cavalletto, si copriva la testa con un panno nero, e poi diceva il classico” fermi così, .. 1.. 2.. 3 fatto.” L’apertura dell’obiettivo era spesso di mezzo secondo, un tempo che in fotografia è da considerarsi “biblico,” ecco perché, per evitare l’effetto “mosso” vi era la necessità dell’immobilità assoluta del soggetto, poi estraeva la lastra di vetro da dietro la macchina e la portava in camera oscura. Dopo circa una settimana si poteva passare a ritirare la foto. La pellicola al tempo era costituita da una lastra di vetro di grosse dimensioni, su cui era spalmarla la sostanza fotosensibile, di solito bromuro d’argento. Dopo essere stata esposta, questa era lavata con una particolare sostanza chimica che lasciava solo il “negativo,” poi si poneva a contatto con della carta fotosensibile e con un apposito apparecchio vi si faceva passare la luce, ritornando così al positivo. Ovviamente le foto erano solo in bianco e nero. Le pellicole per uso industriale, per il cinema, o per scopi militari, ovviamente esistevano già, ma non vi erano ancora i formati standard per usi civili. Come spesso accade furono le esigenze belliche a sviluppare la tecnologia per l’impiego della pellicola fotografica, così come la costruzione di fotocamere più piccole, sicure e affidabili. Esempio lampante è certamente la nascita di uno dei marchi più prestigiosi della fotografia; la Hasselblad, una fotocamera professionale da sempre considerata al top. La Ditta venne fondata in Svezia da un giovane appassionato di fotografia, Victor Hasselblad, la cui azienda di famiglia distribuiva per la Svezia i prodotti di una ditta americana quasi sconosciuta in Europa, la Kodak. Allo scoppio del conflitto, la Svezia si dichiarò neutrale, ma il governo svedese pensò di dotare la propria aviazione di apparecchiature fotografiche per documentare eventuali sconfinamenti delle truppe tedesche. Questa importante commessa fu affidata al giovane Victor, che ideò una fotocamera, da montare sotto le ali degli aerei, dotata di pellicola con formato 6X6 cm. ossia di grandi dimensioni. Alla fine del conflitto, continuò la produzione della fotocamera ad uso civile, lasciando invariato il formato della pellicola, conquistando il mercato dei fotografi professionisti impegnati soprattutto nel campo della moda e della pubblicità. Le sue fotocamere, furono scelte anche dalla Nasa per documentare la missione sulla Luna, compito che svolsero in modo egregio. Il formato della pellicola usato delle sue fotocamere venne chiamato “120” ed era di solo 12 o 24 pose, avvolte attorno a un rullo di celluloide, e priva dei fori per il trascinamento, ma  garantiva una riproduzione fotografica anche in grandi formati, con una risoluzione eccezionale. Oggi la versione digitale di questa fotocamera è tra le più avanzate del mondo, in grado di fare foto con una risoluzione di 200 milioni di pixel, ma anche il suo costo è stellare più di 40.000$. Dal formato della pellicola enorme, passiamo a quello più piccolo, i microfilm. Noi, a sentire questo termine, siamo portati subito a immaginare spie ed intrighi internazionali. In effetti la fotocamera delle spie era la Minox. Fabbricata in Russia, era estremamente semplice, e aveva le dimensioni di un accendino. Usava una pellicola dal formato di appena 8x11 mm. Fissata in un angolo aveva una catenella, per simulare che quello strano oggetto potesse essere un portachiavi, ma in realtà, essendo millimetrata, serviva per porre alla distanza giusta il documento da fotografare. Nella vita quotidiana, l’uso dei microfilm, specialmente negli anni settanta, ebbe una grande diffusione per archiviare intere biblioteche in poco spazio, con il vantaggio di essere sempre consultabili anche con apparecchi a bassa tecnologia, come una semplice lente d’ingrandimento. Da quando poi, la Kodak sostituì le pellicole di acetato perché facilmente deteriorabile, con il poliestere, questi archivi hanno un’aspettativa di vita di oltre 500 anni. Parliamo ora del formato principe della foto di un tempo, ossia la pellicola in contenitore metallico chiamata “135,” e le fotocamere che la utilizzavano. Nel 1917, un nobile giapponese il barone Mitsubishi, per affrancare il Giappone dall’importazione di vetro per obbiettivi dall’Europa, fonda la Nippon Kogaku Kogyo. Allo scoppio del conflitto gli stabilimenti producono apparecchi per puntamento e binocoli, e i dipendenti arrivano ad essere più di 25.000. Quando la guerra termina la crisi industriale si fa sentire, e il barone è costretto a licenziare oltre 20.000 lavoratori, e riconvertire la produzione in macchine fotografiche. La scelta non pare quella giusta, perché viene usato un formato di pellicola particolare, che non trova il consenso del pubblico. Il barone allora, cambia nome alla fabbrica in Nikon, ed adotta il formato standard Europeo. Il successo è immediato, e le fotocamere Nikon in pochi decenni saranno considerate il meglio del formato 135. Con l’introduzione del colore, e l’invenzione negli anni novanta dell’autofocus, di tempi di otturazione di 1/4000 di secondo, e soprattutto della motorizzazione del trascinamento della pellicola, capace di eseguire 6 scatti in un secondo, le fotocamere Nikon conquistano il florido mercato dei reporter sportivi, dei “paparazzi,” e dell’immensa schiera di quelli che qualcuno chiamava “dilettanti evoluti.” Oggi la versione digitale delle fotocamere Nikon, è considerata il ferro del mestiere più affidabile dei professionisti della fotografia. Alla metà degli anni duemila, l’avvento del digitale, mette in soffitta l’uso della pellicola, e decreta la morte commerciale di veri e propri giganti, come la Kodak, costretta a dichiarare fallimento. Altre società come la Scotch, un tempo leader nella produzione di materiali fotografici come carta e prodotti chimici, sono costrette a cambiare la loro produzione. Questo a dimostrazione come il mondo consumistico moderno sia veloce nel creare miti, ma anche nel seppellirli per sempre.
Mario Volpi 29.11.2020
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