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Sezione a cura di Mario Volpi
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Titino il falegname

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Molti di noi pensano che ognuno nasca con già assegnato il suo posto nella vita. Per qualcuno solo agi, e onori, mentre per altri una serie infinita di sciagure, e dolori. Stranamente però, sono sempre i migliori a subire gli attacchi della sfortuna.
Titin ‘l falegname
(Titino il falegname)
In queste lunghe giornate di reclusione forzata, la noia ti spinge a compiere quei lavoretti, giudicati barbosi e sempre rimandati, magari per anni. Così, due giorni fa, mi sono deciso di mettere ordine nei cassetti del comò dentro il ripostiglio. Armatomi di un grosso sacco nero per l’immondizia, ho sfilato a uno, a uno i cinque cassetti, deciso a svuotarli completamente del ciarpame accumulatovisi per decenni. Ma le mie buone intenzioni sono subito state vanificate, quando mi è capitata tra le mani una vecchia foto in bianco e nero, che il tempo aveva ingiallito. Ritraeva me bambino, a piedi scalzi con maglietta e calzoncini corti, con altri due compagni della stessa età, di cui uno, purtroppo  scomparso ormai da anni, e sullo sfondo, la “carovana” di Titin, il falegname. Il ricordo affievolito dal tempo di questo singolare personaggio, si è ripresentato prepotentemente alla mia memoria, facendomi sentire il desiderio di raccontare, le avversità della sua vita, che questa persona ha saputo affrontare con il sorriso, ma combattendole strenuamente fino alla sua morte. Tito, era figlio di un maestro elementare, e per i primi dieci anni, la sua vita era trascorsa negli agi di una famiglia della media borghesia, ma la sfortuna si sarebbe da lì a poco divertita a tormentarlo in maniera pesante. Il padre, fu richiamato militare per la grande guerra, e morì appena arrivato sul fronte. La madre dal dolore abortì il secondogenito che portava in grembo. Dopo appena tre mesi egli stesso fu colpito da quella terribile patologia così frequente a quei tempi, chiamata “paralisi infantile.” Dato per spacciato, miracolosamente si riprese, ma con un’evidente atrofia della gamba sinistra, che lo costrinse a una zoppia evidente per tutta la vita. Questa grave patologia, e la scarsità di alimentazione, gli provocarono una forma di rachitismo, che compromise per sempre il suo accrescimento, facendogli guadagnare per la sua piccola corporatura il soprannome di Titin. Per cercare di sopravvivere, la madre lo mandò come apprendista da un vicino che aveva una piccola bottega di falegnameria. Qui il piccolo Tito, trovò la sua vera passione, non solo imparò rapidamente il mestiere, ma divenne braccio destro, e uomo di fiducia, del padrone, tanto che alla sua morte, non avendo eredi, divenne il proprietario di questa piccola attività. Eravamo nei primi anni trenta, e Tito, capì che la sua attività chiusa nella borgata di Pontecimato, non sarebbe stata in grado di dargli di che vivere, così, pensò di attrezzarsi per essere lui a portare i suoi servizi alla gente. Vendette il piccolo fondo dove aveva l’attività, e attrezzò con un banco da lavoro e diversi utensili una specie di carro-carovana coperto, dove dentro, vi era anche una piccola branda pieghevole. Quel singolare carretto con la scritta “falegnameria Tito” a caratteri cubitali sui lati divenne subito famoso. Trainato da una gigantesca cavalla pezzata chiamata Giunone, inizio la sua nuova attività di porta a porta. Essendo un vero mestierante, aveva deciso di diversificare la sua attività in base alle stagioni. Così nel periodo invernale, andava sulla costa negli innumerevoli cantieri navali, dove offriva i suoi servigi che andavano dalla calafatura dei gozzi, fino alla sostituzione di pezzi sia in opera viva, che nelle sovrastrutture, mentre l’estate era dedicata alla riparazione di sedie, sdraio, tavoli, o cabine, negli stabilimenti balneari situati da Marina di Carrara, fino a Viareggio. Dormiva dentro la carovana, mentre i pasti frugali erano spesso offerti in cambio dei suoi servizi. Ma la sfortuna non si era dimenticata di lui, infatti, le nubi dei venti di guerra si stavano addensando sull’Europa. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, egli essendo invalido civile, non fu richiamato, ma pensò che non fosse prudente muoversi con la carovana, così attrezzò una specie di sella con delle grosse borse per gli arnesi e dei pezzi di legno, e continuò la sua attività solo con Giunone. Quando poteva, cercava di tornare alla carovana alla sera per dormire, altrimenti si accontentava di una stalla o qualche fienile. Negli anni era diventato famoso anche per la sua parlantina sciolta, e la sua eterna positività, con la faccia, ormai incorniciata da una folta barba bianca, sempre aperta al sorriso. A chi gli chiedeva quale fosse la sua idea politica, egli, aveva una prontezza di spirito eccezionale per capire, e quindi dire, ciò che il suo interlocutore aveva voglia di sentire. In quei tempi difficili, dove anche un sospetto di appartenenza alla parte avversa poteva sfociare in tragedia, questa era l’unica maniera di cercare di restare vivo. Io quando lo conobbi, ero solo un bambino, e la guerra era finita, ma diversi anni dopo, ebbi l’occasione di incontrare una persona il cui padre si serviva spesso dei suoi servigi di falegnameria.  Questi mi raccontò di due episodi, che quando anche lui era un bambino, aveva assistito personalmente. Il padre di questo mio conoscente, aveva una pensioncina a Marina di Massa, e in un’afosa estate del 1943, mentre Tito stava consumando un frugale pranzo nel cortile della pensione, irruppero tre “squadristi,” che dopo aver chiesto da mangiare cominciarono a fissare Tito. Il più giovane e scalmanato dei tre si alzò, e dopo essersi avvicinato all’uomo disse” come ti chiami? Da dove vieni?” Tito rispose tranquillamente, mentre l’altro sempre più agitato gli domandò a bruciapelo “non sarai mica un partigiano inviato per spiarci?” Titin gli fece un semi sorriso e con calma rispose” sono più nero io della tua camicia!” Il giovane con una risata gli batté una mano sulla spalla e dopo aver mangiato con i commilitoni, se ne andò. Nello stesso luogo due giorni dopo la scena si ripeté in modo quasi identico, ma questa volta erano i partigiani a caccia di fascisti. Alla fatidica domanda ”sei amico dei fascisti?” Tito, con un serafico sorriso rispose “ domandalo a quello che ho stesso ieri mattina sull’Aurelia!” Proprio pochi minuti prima, chiacchierando con il padrone della pensione, gli era stato riferito di quel fatto di sangue avvenuto il giorno prima,. Così, la sua prontezza di spirito, non solo si salvò la vita, ma ottenne anche un quartino di rosso, pagato dai partigiani a quell’ammazza fascisti. Titin, probabilmente a causa della sua esile costituzione, e della sua vita errabonda, contrasse il “mal sottile,” come al tempo chiamavano la Tbc, ma continuò comunque a lavorare fino a quando le forze gli lo permisero. Fu trovato morto nel suo “carrozzone,” come lui lo chiamava, nell’inverno del 1965, a soli sessanta anni, dopo aver appena percepito, per il primo e unico mese, una misera pensione da invalido civile, istituita dal Governo solo da pochi anni. Anche qui, la sfortuna aveva voluto beffarlo.
Mario Volpi 1.06.2020
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