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Sezione a cura di Mario Volpi
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Il vizio del gioco

Racconti
Spetta/Le Redazione

Un antico adagio recita che l'ozio è il padre dei vizi, ma spesso non è proprio così!

Alla fine degli anni cinquanta, l’assistenza sociale ai cittadini con problematiche fisiche, o mentali, non era come oggi. Queste persone disagiate, erano abbandonate a se stesse, costrette a vivere ai margini della Società, svolgendo saltuariamente piccoli lavori, che non sempre garantivano loro il sostentamento quotidiano. Giovà d Giuspin, era uno di questi. Era un ragazzo sui trenta anni, gracile e allampanato, vittima innocente della malasorte che si era accanita contro di lui. Ultimo figlio di una famiglia numerosa, che la guerra prima, e il mal sottile poi, aveva sterminato, facendo di lui l’unico superstite. Come se ciò non bastasse, in tenera età, era stato colpito dalla ”paralisi infantile, ” come al tempo era chiamata la Poliomielite, che gli aveva lasciato in eredità, un’evidente zoppia. Abitava nella cascina di famiglia, che l’ingiuria del tempo, e la mancanza di manutenzione, avevano reso fatiscente, al limite dell’abitabilità. Giovà, nonostante tutto, era una persona solare, dal franco sorriso, che si faceva benvolere da tutti. Questa suo carattere, faceva sì che tutti lo aiutassero, chiamandolo per svolgere lavori stagionali, come la vendemmia, la raccolta delle olive, o la mietitura. Erano esclusi i lavori troppo pesanti come la vangatura delle viti, perché, a causa della sua menomazione sarebbero stati impossibili da eseguire. Forse a causa della sua situazione socio-economica, o più verosimilmente a causa dei problemi fisici, non si era mai interessato al gentil sesso, almeno per quanto si sapeva in paese. Anche lui però aveva una passione, direi quasi un vero e proprio vizio che al tempo accumunava molte persone; il biliardo. Era un accanito giocatore di boccette, e anche bravo. Non aveva una gran tecnica, ma la sua bocciata era micidiale, come il suo mettere il punto con delle ”candele” semplici ma perfette al millimetro. La sua assiduità al gioco era dovuta al fatto che era prassi di quegli anni che chi perdeva pagava il biliardo. Un giorno seppe che a Fossola organizzavano una gara di boccette, con ricchi premi, e grazie alla generosità di alcuni clienti del Bar Splendor che frequentava, ottenne le trecento lire necessarie per l’iscrizione. Quando si seppe che era arrivato alla finale, tutti noi ci trasferimmo a Fossola per vedere quell’epica partita. Si batteva per la finale un noto giocatore della frazione di S. Antonio assiduo vincitore di questi tornei e Giovà, semi sconosciuto a tutti, escluso noi. Dopo quasi un’ora di gioco, erano in parità, con quarantacinque punti per uno ma, ora la bocciata toccava a Giovà. Dopo aver posto il boccino a circa un palmo dal castello, Giovà, si preparò alla bocciata. Batté un paio di volte la sua palla sul biliardo, poi con una calma olimpica prese la mira e tirò. Colpì il pallino con un colpo che sembrava una fucilata, scaraventandolo sul castello, dove fece un filotto perfetto. Aveva vinto, e tutti noi lo salutammo con un urlo liberatorio. Il mattino dopo Robè, gli dette un passaggio sulla Vespa per portarlo alla Battilana da un pastore del posto. Il premio vinto consisteva in un agnello vivo. Eravamo sotto Pasqua, e tutti noi eravamo certi che una volta tanto anche Giovà potesse fare un pasto luculliano. Ma ci sbagliavamo, quello che successe lo raccontò Robè quando tornò al bar. L’agnello in questione era nero ossia di razza Massesa, il pastore disse che era appena stato svezzato, e che quindi le sue carni sarebbero state gustose, e non con il retrogusto di latte di pecora. Pesava almeno una decina di chili, e tenerlo sulla vespa non era stato agevole, così quando arrivarono a casa di Giovà, Robè s’offrì di aiutarlo a spellarlo, cosa che Giovà accetto volentieri. Mentre Robè teneva fermo l’agnello, Giovà corse in casa e ne uscì con un coltellaccio da cucina, si avvicinò all’animale, e gli mise la mano sul muso per sollevargli capo e sgozzarlo, ma l’agnellino, forse affamato gli leccò la mano. Giovà, si fermò di colpo, poi gettò a terra il coltello e preso l’agnello in braccio corse in casa. Solo dopo si seppe cosa era successo. Il gesto dell’animale scatenò nel ragazzo un senso di colpa per quello che stava per fare, che si trasformò subito in un sentimento di pietà. Così decise che non sarebbe diventato costolette, e presolo lo portò sulle piane di Monteverde perché potesse mangiare l’erba. La cosa gli piacque talmente, che, dopo pochi giorni torno alla Battilana, dove fece un accordo con il pastore. Avrebbe lavorato per lui in cambio di un paio di agnelli. Fu così che da povero diseredato, Giovà divenne pastore, si sposò con una delle figlie del suo datore di lavoro, ebbe tre figli, e quando morì, quasi centenario, il suo gregge contava più di duecento animali. Questo contradice quel vecchio adagio che recita, che la passione per il gioco non porta mai bene a chi la possiede, ma si sa, ogni tanto anche i vecchi proverbi sbagliano.
Mario Volpi
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