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Sezione a cura di Mario Volpi
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I padroni del fuoco

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Ormai, purtroppo, Carrara non è più la capitale mondiale del marmo. L'ottusità della politica, a fatto si che i magnifici artigiani, prima dei souvenir e poi quelli addetti ai vari servizi, chiudessero bottega, o si trasferissero nella vicina Pietrasanta, divenuta non si sa perchè la "succursale" di Carrara.

Da secoli Carrara è riconosciuta come capitale mondiale dell’estrazione e lavorazione del marmo. La perizia e il sapere dei suoi cavatori, scultori e scalpellini, hanno fatto si che la “polvere di stelle, ” come poeticamente era chiamata la bianca materia, desse forma a opere d’arte immortali. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’opera di un artigiano semisconosciuto; il “magnan,” com’era chiamato in dialetto, ossia il fabbro. Un tempo, erano decine le fucine sparse sui vari versanti delle cave, collocate spesso in piccoli bugigattoli, che il fumo delle forge aveva annerito, e resi bui, e cupi come la caverna dell’antico dio Vulcano. Questo vero e proprio padrone del fuoco, riconvertiva le subbie, che il continuo battere dei quadratori sul duro marmo, aveva spuntato, rendendole, con la “tempra” ancora più dure, rigenerava i mazzuoli, che il contatto con la subbia aveva reso inutilizzabili per la formazione di un grosso foro simile a un cratere sulle due facce, e infine riformava i “punciotti, ” indispensabili per dividere in due un blocco di marmo. Ma il suo indispensabile lavoro non finiva certo lì. Costruiva, spesso su indicazioni del tecchiaiolo, il “piz, ” (pizzo) una corta leva di ferro, provvista a un’estremità di un occhiello, per essere, tramite una cordicella, legata alla vita di questo “acrobata della montagna,” mentre dopo il brillamento di una mina, “volava, ” come un ragno, attaccato a un’esile fune, lungo la bancata per ripulire la tecchia da sassi pericolanti. Uno dei lavori più difficile, che decretava la bravura del magnan, era la riparazione delle punte del martello pneumatico da perforazione, chiamate “fioret,” (fioretto.) Fare i fornelli da mine era un tempo, un lavoro basilare, quindi le punte dovevano essere efficienti e affidabili. Il lavoro del fabbro era sporco, e molto faticoso, e a causa di questo, erano molto pochi i “bagasc” (apprendisti) che si avvicinavano a questa professione. L’apprendista cominciava con le mansioni più umili e noiose, come girare la manovella del soffietto meccanico applicato sul fianco della forgia, o spaccare il carbone. Al tempo per alimentare la forgia si usava unicamente carbone fossile, che era spesso di grossa pezzatura. Così un po’ per renderlo più compatibile ai minuscoli bracieri necessari a scaldare subbie e scalpelli, ma soprattutto per risparmiare, si costringeva il “bagash” com’era chiamato al tempo l’apprendista, a spaccarlo con il martello, lavoro, lungo, sporco, e noioso. Quando invece aveva preso più dimestichezza con il lavoro, l’apprendista, doveva imparare a “battere la mazza.” Questo lavoro oltre che faticoso, era impegnativo, e assai pericoloso, soprattutto per il “fabbro maestro.” Consisteva nel battere la mazza a tutta potenza, sul pezzo di metallo incandescente, nel punto esatto in cui il fabbro aveva battuto con il suo martello alcuni secondi prima. La coordinazione tra i due, e qualche volta anche tre, era fondamentale, perché un colpo sbagliato, poteva facilmente rompere un braccio, se non peggio al maestro. Quando diventavano molto bravi, questi veri e propri “magli viventi” erano contesi dai vari magnan, a riprova di quanto fosse difficile quest’operazione, basilare in questo mestiere. L’attrezzatura base del fabbro era composta di pochi oggetti standard, come l’incudine e la forgia, il resto, composto da pinze, tenaglie, punteruoli e scalpelli particolari, era auto costruita, in base al lavoro per cui, quel dato attrezzo era stato inventato. Così nelle improvvisate rastrelliere metalliche di questi signori del fuoco, si potevano ammirare decine di attrezzi dalle forme più strane, e non convenzionali, utili per eseguire magari solo un lavoro, che si andavano accumulando nel corso degli anni. Esistevano anche i cosiddetti, “magnan da pian, ” ossia quei fabbri che avevano le loro botteghe nelle vie cittadine, o nei Paesi a Monte. Questi artigiani ovviamente si occupavano di fornire un’altra tipologia di manufatti, di uso più adatto al vivere quotidiano, come testiere da letto, inferiate da finestre, ringhiere per scale e balconi, o cancellate. Vi è stato un tempo, che proprio la ricchezza, e l’opulenza di questi manufatti, segnalavano l’importanza nella scala sociale della famiglia committente. Uno dei soggetti preferiti dai clienti del tempo, erano i tranci di rose attorcigliate su ricci artisticamente ritorti, forse perché considerate, e con ragione, molto difficili da riprodurre in ferro battuto. Così, furono realizzate delle vere e proprie opere d’arte, con cancelli e ringhiere realizzati con un telaio, di ferro tondo pieno, con l’interno riempito da rami di rose in fiore, comprese di foglie con le venature, e di spine, riprodotte con una precisione tale da sembrare vere. Anche le testate da letto, erano realizzate in ferro pieno, che spesso facevano grande uso di grossi pomi d’ottone dorato dove al centro, un intricato viluppo di riccioli e tralci in fiore con boccioli e foglie, si avvinghiava a un’elegante telaietto, dove, realizzate in corsivo, campeggiavano le iniziali della famiglia committente. E’ chiaro che i vari pezzi erano uniti tra loro tramite ribattitura, senza fare uso di saldatura sia autogena sia elettrica. Purtroppo molte di questi manufatti, specialmente durante le ricostruzioni, nel periodo post bellico, del secondo conflitto mondiale, sono spariti, alcuni distrutti dal crollo delle case, altri venduti per poche lire a spregiudicati antiquari, che in quel periodo, sfruttando i primari bisogni della gente, fecero affari d’oro. Fornivano anche semilavorati come ferri da cavallo, o da bove, ai maniscalchi, che poi sempre a caldo, li adattavano agli zoccoli dei vari animali Oggi in città non esiste più nessuno che porti avanti quest’arte antica. L’ultimo magnan chiuse bottega nel lontano 1984. Da allora, solo per quelli della mia età, rimane un nostalgico ricordo, mentre, per le nuove generazioni, oltre a ignorare completamente la loro esistenza, sarà negato il piacere di sentire il ritmico e argentino suono prodotto dal martello sull’incudine, decretando così, perduto per sempre, il millenario sapere dei padroni del fuoco.
Mario Volpi 29.5.21
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