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Sezione a cura di Mario Volpi
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Il troppo stroppia

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Dopo il boom, e il flop, degli anni ottanta e novanta, i movimenti verdi, riappaiono sulla scena socio-politica mondiale. Complice una ben orchestrata campagna mediatica, che "usa" personaggi più o meno simpatici, questi movimenti sono capeggiati da persone che sanno solo "parlare" di politica verde," ma che non saprebbero stare un solo minuto senza le comodità di questo tanto odiato "mondo consumista!"

Questo è senza dubbio uno dei più noti proverbi popolari italiani, e ci avverte come l’esagerazione possa portare a guai molto seri. Oggi il “green,” ossia il verde, inteso come nuovo modo di concepire la vita umana e il suo sviluppo, è alla base di ogni discorso, da quello delle massaie al mercato rionale, per arrivare fino alla Commissione Europea, che ha addirittura legato i possibili aiuti economici al nostro Paese, all’adozione di politiche verdi da parte del Governo. A tal proposito vi sarebbe molto da obiettare, visto che la Germania e la Polonia, sono ancora dipendenti dalle obsolete centrali a carbone, molto inquinanti, mentre la vicina Francia possiede ben cinquantotto reattori nucleari attivi, per la produzione dell’energia elettrica, ma chissà perché, a questi Paesi tutto è permesso. Invece, pur essendo uno dei membri fondatori, l’Italia in Europa, a causa dello scarso spessore della sua classe politica, è considerata un po’ come la “cenerentola,” per usare un eufemismo gentile. Per lo stesso motivo, molti anni prima, il nostro Paese è passato da un estremo all’altro, di questo “movimento verde,” con il fantastico risultato di trovarci inguaiati in entrambi i casi. Ma andiamo con ordine. Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia, e la sua popolazione erano stremate, sia moralmente sia finanziariamente. Lutti e rovine, avevano fiaccato la popolazione che per sopravvivere, non si preoccupava certamente di non “violentare” l’ambiente. Così si ricorreva alla raccolta indiscriminata di piante, e animali, come rane, lumache, anguille e pesci, preoccupandosi davvero poco dei modi usati per la loro cattura. Agli inizi degli anni sessanta si ebbe una timida ripresa economica, che portò gran parte della popolazione, ancora agricola, ad acquisire un permesso di caccia, non solo a scopo ludico, ma anche per procurarsi proteine a buon mercato. In quegli anni il numero dei cacciatori “legali,” era di quasi due milioni, e la stagione di caccia cominciava dall’ultima domenica di agosto, per terminare oltre la metà di marzo. Con l’avvento del boom economico del 1963, molti cacciatori si dotarono dei primi fucili a ripetizione. Questi potevano sparare cinque colpi, e con una piccola prolunga al serbatoio potevano arrivare a sette. Ma era l’uccellaggione industriale che faceva danni. Ai passi alpini erano installate le cosiddette “ragnaie,” reti lunghe chilometri che catturavano qualsiasi tipo di volatile passasse, fosse protetto o meno, e molti di loro morivano prima che si potesse liberarli. Nelle pianure erano usate le reti a libro, che catturavano interi stormi di storni, passeri, pavoncelle, e pivieri. Nei Roccoli, poi, una specie di “castello di fronde e reti, ” con l’aiuto di decine di richiami vivi, si catturava di tutto dal merlo, al frosone, dai fringuelli, fino ai piccolissimi cardellini. Molti di questi volatili erano usati vivi come richiami, ma la maggior parte finiva sulle tavole delle trattorie, o nelle orrende cassette ad apertura rapida, dei campi di tiro a volo. Si poteva cacciare in qualsiasi terreno purché non recintato, e si lasciavano al suolo i bossoli che nel frattempo erano diventati di plastica. Si poteva sparare anche sulla riva del mare, nei mesi primaverili, per insidiare gli anatidi che facevano il ripasso per nidificare. Lepri e fagiani, presi in allevamento, erano “lanciati,” il giorno prima dell’apertura di caccia per giustificare il costo della licenza. In quegli anni, l’ambiente, e la fauna furono messi a dura prova. In poco tempo molte specie erano diventate rarissime, così si corse ai ripari. Ma come sempre nel farlo, si esagerò nelle restrizioni, che causarono più danni che benefici. Si limitò la capacità di fuoco dei fucili automatici a solo tre colpi, la licenza di caccia triplicò il suo costo, perché le Regioni pretesero di partecipare a quello che allora sembrava un ricco banchetto. Si regolamentò severamente l’attività venatoria, limitando il numero di capi abbattuti, e le specie cacciabili, riducendo poi a solo tre giorni la settimana l’attività di caccia, e aumentando in modo esagerato tasse, e pratiche burocratiche, per ottenere il porto d’armi, e per svolgere attività venatoria. Un neonato movimento ambientalista poi, acquisì sempre più potere, e la Politica, per ottenere consensi, non solo permise a membri di tale movimento, di fare servizio di controllo venatorio, equiparandoli in modo “disinvolto,” a organi di polizia, ma si piegò a una politica “pseudo-ambientale,” confusa ed emotiva, piena di contradizioni e paradossi. Il risultato di questi eccessi non tardò a farsi sentire. I cacciatori, esasperati, diminuirono sensibilmente, arrivando a essere meno di un terzo di quelli di un tempo, mettendo in crisi finanziaria tutte le attività che ruotavano attorno alla caccia. L’abbandono progressivo della campagna, e il rilascio accidentale, o “buonista,” di specie aliene fecero il resto. Gli storni, privi di predatori naturali, e senza il prelievo annuale dei cacciatori, si moltiplicarono in modo esponenziale, devastando interi vigneti,  eleggendo a dormitori, zone alberate delle nostre città, riempiendo dei loro escrementi tutto quello che si trova al di sotto. Nutrie, tartarughe americane, e pesci siluro, arrecarono danni irreversibili alle specie autoctone, e agli argini di fiumi e torrenti. Stormi di migliaia di piccioni imbrattarono con le loro deiezioni acide balconi, e monumenti, mettendo a rischio, oltre al nostro patrimonio storico, anche la salute pubblica. Specie opportuniste, come i gabbiani, si accorsero che nelle discariche vi era più cibo che in mare, e che i tetti, e le terrazze delle case erano luoghi perfetti per nidificare, aggredendo, ferocemente, chiunque invada quello che ormai considerano il loro territorio. I soliti movimenti ambientalisti, scesi in politica, promulgarono leggi severissime per “proteggere,” cervi, caprioli e daini, così oggi, questi ungulati riproducendosi senza controllo, hanno letteralmente spogliato, diversi parchi naturali del loro manto vegetale, esponendoli all’erosione, e non trovando il cibo necessario per il loro numero spropositato, stanno rivolgendo la loro famelica attenzione alle coltivazioni, provocando danni per milioni di euro. Ultimamente poi, interi branchi di cinghiali, si sono stanziati nelle vicinanze delle nostre città, nutrendosi della spazzatura, e provocando frequenti incidenti anche mortali con auto e moto di passaggio. Ogni piano di contenimento di questi “invasori,” è sistematicamente osteggiato da movimenti “buonisti,” che non vogliono l’abbattimento di un certo numero di capi, ma che in alternativa non sanno fare alcuna proposta. Quindi, a distanza di oltre mezzo secolo, l’antico adagio è più che mai attuale, anzi spesso il “troppo,” non solo stroppia, ma provoca guai spesso irreversibili, con il beneplacito degli “ambientalisti,” dell’ultim’ora, con telefonino di ultima generazione, e capi firmati.
 
Mario Volpi 18.7.21
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