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Sezione a cura di Mario Volpi
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Un drago nella stanza

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Anche se quest'anno è alquanto bizzarra, la primavera fa risvegliare dal letargo invernale animali che a molti suscitano terrore o ribrezzo. Uno di questi è sicuramente il Geco. Abitante fisso di ruderi e soffitte, si vede sempre più spesso nelle nostre case, segno di una migliore qualità ambientale.


Ieri mattina, me ne stavo tranquillamente spaparanzato sul divano a leggere il quotidiano appena arrivato, quando un urlo terrificante proveniente dalla cucina mi fece sobbalzare, qualcuno si era fatto male? Mi sono precipitato aspettandomi di vedere mia figlia, o mia moglie a terra o in condizioni critiche. Per fortuna nulla di tutto ciò era avvenuto, e la situazione che mi trovai davanti, era in realtà esilarante. Mia figlia in un angolo della cucina con un’espressione di terrore in faccia come se avesse visto Lucifero in persona, m’indicava terrorizzata un punto del soffitto, dove un grosso Geco, per nulla spaventato se ne stava tranquillamente “appeso, ” quasi sfidando la legge di gravità. Io mi sono avvicinato per prenderlo delicatamente, ma il piccolo drago, in un secondo è letteralmente sparito dietro i pensili. Mia figlia disse convinta che fino a quando non gli assicuravo che il “mostro” fosse uscito, non sarebbe più entrata in cucina. Sorridendo tornai a sedere in salotto, ma questa situazione mi fece tornare alla mente un ricordo di quando ero bambino, e facevo il “cacciatore professionista,” per il mezzadro della cascina, vicino casa mia. Forse per la sua forma fisica, così cicciottella, con la testa e gli occhi sproporzionati rispetto al resto del corpo, il Geco, nell’immaginario collettivo, è da sempre associato a un’animale potente, quasi magico o mitologico. Mitologico perché può partorire per partenogenesi, è anche in grado di rigenerarsi da un letargo molto simile alla morte, che gli fa superare gli inverni più duri, diventando più grande anno dopo anno, simbolo di potenza poi, per la ferocia con cui difende il suo territorio, e magico per la sua abilità di “scomparire” in un attimo, anche in ambienti a prima vista privi di qualsiasi nascondiglio. Il mezzadro mi pagava una fortuna, una carruba, e quattro o cinque castagne secche per ogni Geco che gli portavo, ovviamente vivo. Per ovviare alla loro combattività per il territorio, li teneva dentro una damigiana vuota fino a quando non gli ne portavo cinque o sei, poi tutti insieme, li liberava nel pagliaio situato sopra la stalla, dove svolgevano il compito d’insetticidi naturali, nei confronti di tafani, zecche e pappataci che tormentavano le mucche. Io già ai primi di maggio, appena tornavo a casa da scuola, dopo un piatto di minestra ingurgitata in fretta, andavo in cerca degli steli dell’Avena selvatica più lunghi e robusti, perché erano i miei “ferri del mestiere.” Doveva essere al massimo dello sviluppo ma ancora verde, per non comprometterne la flessibilità. La pulivo accuratamente e delicatamente di tutte le foglie e i semi, quindi facevo un cappio sulla sommità della stessa, così armato, la battuta poteva cominciare. Portavo con me un piccolo fiasco, che chiudevo con un pezzo di tutolo di mais. Mi avvicinavo lentamente nel pieno del primo pomeriggio, quando il caldo sole della tarda primavera cominciava a picchiare come un martello, a vecchi ruderi, o assolate pietraie, e quando vedevo la mia preda stesa al sole, una scarica di adrenalina m’inondava il corpo. Cercavo di avvicinarmi dalla parte della coda, per sfruttare il suo angolo cieco, quindi con esasperante lentezza avvicinavo il cappio alla sua testa. Spesso il vento faceva muovere il sottile filo d’erba, che solleticando l’animale, lo infastidiva, facendolo fuggire, ma la maggior parte delle volte ero io a vincere. Quando la grossa testa era nel cappio, davo uno strappo secco, e carrube e castagne erano assicurate. Con infinita cautela, per non fargli rompere la coda, lo afferravo dietro il capo, e dopo averlo liberato del laccio, lo infilavo nel fiasco. Penso che sia io il responsabile della grossa colonia di Gechi che ancora esiste nella cascina ormai in rovina. Con stupore, recentemente, ho visto che questo stupendo animaletto, nelle sue forme più esotiche è addirittura venduto nei negozi d’animali, dove è messo in terrari attrezzati con lampade infrarosse e pietre, per simulare il suo habitat naturale. Personalmente sono sempre stato affascinato da questo parente della lucertola, soprattutto per le sue doti fisiche non comuni. Le sue zampe possiedono delle pieghe di pelle poste orizzontalmente al corpo che permettono all’animale di muoversi su ogni superfice, addirittura sul vetro, anche capovolto, avendo sempre un’ottima presa, il corpo leggermente schiacciato ha la possibilità d’infilarsi in fessure microscopiche, che gli permettono di sfuggire a predatori agguerriti come ad esempio il gatto. La pelle piena di tubercoli, secondo l’inclinazione della luce, cambia colore, e gli serve egregiamente, oltre che per mimetizzarsi, anche per disperdere il calore in eccesso. La sua dieta composta prevalentemente di ragni, mosche, zanzare, e formiche, ne fa un alleato dell’uomo, tanto che dovrebbe essere tenuto nelle nostre case come animale domestico. A tal proposito ho sentito una storia raccontata a una cena tra amici. Un giovane, conoscente di uno dei miei amici, era in viaggio di nozze con la moglie, da sempre innamorata delle zone più esotiche del Mediterraneo. Avevano scelto la Tunisia, e dopo un faticoso viaggio in pullman dall’Aeroporto, giunsero a notte inoltrata in un lussuoso albergo, dove avevano prenotato una delle suite più belle. Ma appena entrati, la moglie ebbe a svenire, il soffitto della camera era pieno di Gechi che lì erano considerati dei portafortuna. Inutile dire che cambiarono albergo, ma la loro prima notte di nozze fu rovinata, tutto per colpa di un “drago” nella stanza.

Mario Volpi 16.06.2020
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