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Antichi mestieri

STORIA
Antichi mestieri una sapienza perduta
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro….
Così recita uno dei primissimi articoli della nostra Costituzione, a dimostrazione di quanto sia importante il lavoro in una società civile. Ma purtroppo oggi la sua mancanza, è la prima causa di disagio nel mondo giovanile. Paradossalmente il progresso tecnologico, che ha da un lato, affrancato l’uomo da fatiche inumane, da l’altro ha tagliato migliaia di posti di lavoro. Faccio un esempio: cinquanta anni fa, per pubblicare questo articolo, avrei avuto bisogno dell’ausilio di diverse persone,  un correttore di bozze, un tipografo, un addetto alle rotative, un distributore, e infine un edicolante. Senza poi contare tutto l’indotto, il commerciante di carta, di inchiostri, di piombo e così via. A una riduzione di possibilità lavorative, non ha corrisposto una diminuzione della popolazione, anzi, il più sano tenore di vita, ha portato al suo progressivo incremento, causando così la creazione di una grave crisi occupazionale. Nei primi anni cinquanta, il livello tecnologico era bassissimo, ciò richiedeva mano d’opera in gran quantità, tanto che venivano impiegati moltissimi ragazzi, poco più che bambini, sottraendoli anche alla scuola. Nella nostra zona il settore predominante era quello lapideo, dall’estrazione, alla lavorazione, ma la sua organizzazione lavorativa era così complessa, e i mestieri così vari, che merita una descrizione.
Mario Volpi
Al piano
Al così detto piano invece,il mestiere predominante era il barrociaio. Vi erano tre tipologie di barocci, a secondo delle merci che dovevano trasportare, quello comune, ossia con le classiche ruote alte, e il tiro a uno, quello a quattro ruote, e la manbruca. Questo ultimo, era considerato un carro speciale, in quanto adibito solo al trasporto di lastre. Era costituito da l’assale molto basso da terra, e da ruote di diametro ridotto, per consentire un carico più agevole, era molto stretto, con le sponde altissime per bloccare, tramite un cuneo di legno, le lastre che venivano posizionate di taglio, il tiro era a uno. Vi era poi il carro a quattro ruote, questo era impiegato nei trasporti di merci ingombranti o fragili, come ad esempio i fiaschi di vino o le damigiane, che venivano caricate a formare un cuneo pressoché inamovibile, il tiro era prevalentemente a due.
Il barrocciaio oggi sarebbe un artigiano, perché era al servizio del pubblico, per qualsiasi trasporto, il suo recapito di solito era nella Cantina, il bar del tempo, uno spettacolo curioso era il vedere all’esterno nelle cantine più frequentate, una moltitudine di carri posteggiati, con i cavalli con la musetta, una specie di sacco fissato alla cavezza, con dentro un po’ d’avena, che aspettavano mangiando, di fare il prossimo viaggio. Alla rudezza del personaggio, corrispondeva un amore per l’animale quasi fraterno, era infatti, rarissimo che un barrocciaio frustasse il cavallo, per incitarlo, si limitava solamente, a sonore bestemmie, e a fare scioccare la frusta in aria, esercizio in cui era maestro.

In questa foto i cavalli hanno sostituito i buoi maremmani


Marina di Carrara, 22 luglio 1901. Lastre di marmo su mambruca, trainata da due paia di buoi. Con alcuni buscaioli
“D’om a zornata”
Altro mestiere molto comune era il bracciante agricolo, “D’om a zornata” come era chiamato in dialetto. Questo personaggio racchiudeva in se diverse capacità lavorative, sempre legate al mondo dell’agricoltura, era ad esempio capace di potare gli ulivi, ma serviva anche per innestare la vite, mieteva il grano, si occupava della semina, era insomma un contadino perfetto, con capacità che spaziavano in tutti i campi del mondo agricolo, arrivando in alcuni casi, anche ad avere conoscenze in veterinaria., alcuni di questi, possedevano anche muli, che servivano prevalentemente a trasportare carbone, o legna da ardere, dai boschi circostanti. Svolgeva il suo lavoro a chiamata, quando serviva, pagato appunto a giornate, era molto soggetto alle bizze meteorologiche, in quanto, in caso di pioggia, neve, o forti gelate, non poteva lavorare restando, ovviamente, senza mezzi di sostentamento.


Buscaiol
«Buscaiol», era l’addetto al caricamento di lastre, sulle proprie spalle per depositarle nei velieri da dove partone per tutte le destinazioni di altri porti (Livorno e Genova), quando ancora non esistevano le gru.
Era il lavorante alla giornata, spesso il lavoratore si recava sul posto di lavoro e aspettava che venisse chiamato, troviamo un monumento dedicato alla fine del viale XX Settembre.

Al buscaiol
a la fadiga chi ia fat
a la fama chi ia patit
p'r cont d'noaltri
c'a sian v'nuti dop.
il maniscalco, che oltre alla ferratura degli animali si occupava anche della riparazione delle ruote dei carri, questo di solito era un imprenditore con una propria bottega, talvolta anche con operai al proprio servizio.
Nella zona di Pulica e Marciaso erano comuni i carbonari, o “Omi neri” come erano chiamati in dialetto. Il loro lavoro era molto difficile e richiedeva grande spirito di sacrificio, durante la stagione delle carbonare che andava da aprile a settembre, dovevano costantemente tenerle d’occhio, questo li costringeva a stare lontano dalle loro case per lunghi periodi, in capanne di fortuna, con norme igieniche approssimative. Erano dei veri artisti nel loro campo, prima di tutto dovevano costruire una piramide conica, con rami di legno, con al centro un “Camino”dopo di che, con zolle di terra ricoprire il tutto, avendo cura di aprire nei fianchi delle prese d’aria, poi attraverso il camino, veniva effettuata l’accensione. Questa doveva essere attentamente controllata, affinché la carenza di ossigeno facesse carbonizzare il legname senza incendiarlo con la fiamma viva. Ciò avveniva aprendo e chiudendo sapientemente gli sfiatatoi. Il processo durava in media una settimana, poi la carbonara veniva “Svestita” e il carbone raffreddato con acqua, era pronto per la vendita. La superstizione credeva che bastasse un’occhiata di un carbonaro, perché una donna restasse incinta, così si assisteva al curioso rito di donne, con difficoltà di concepimento, che portavano un loro indumento intimo sul luogo dove vi era stata una carbonara, lo lasciavano una notte, e il mattino dopo lo recuperavano per indossarlo. A quei tempi non esistevano fertilizzanti se non quelli naturali, così vi era un mestiere che veniva svolto nelle ore notturne, non ho mai capito, se per motivi logistici, o solo per vergogna:
Venivano quasi tutti dal territorio massese, in quanto più a vocazione ortofrutticola, erano dotati di una carro con una botte in legno fissata longitudinalmente, il liquido veniva prelevato, alla luce di una lampada ad acetilene, dai pozzi, con uno strumento chiamato pipa, in quanto ne ricordava anche la forma, costituito da una pertica con fissata all’estremità un barattolo. Anche se a narrarlo sembrerà inverosimile, prima del prelievo il “Prodotto” veniva assaggiato, si avete capito bene, il bottinaio ne assaporava un sorso per capire se era maturo, in caso contrario non veniva prelevato. Del poco profumato liquido, il migliore veniva distillato per fare, a quanto si diceva un’ottima grappa.
Era quasi sempre un’ambulante l’ombrellaio-arrotino, era infatti comune che la stessa persona svolgesse i due mestieri, oltre naturalmente ad occuparsi della riparazione dei “Concon”. Questi recipienti in terracotta, erano il centro della vita delle case del tempo. Dentro si faceva il bucato, si lavavano i figli più piccoli, si rigovernavano i piatti, insomma tutte quelle incombenze dove serviva un recipiente di grandi dimensioni. Aveva forma tronco-conica, con un’altezza da terra di circa un metro, con la bocca più larga, con un diametro di novanta centimetri o più, aveva l’interno  smaltato di verde, per renderlo impermeabile. Costava una cifra, e la sua rottura era una vera tragedia.
E qui entrava in gioco l’ombrellaio; con un violino, un rudimentale trapano a mano, praticava dei piccoli fori ciechi attorno alla spaccatura, e dopo averla ben pulita con una spazzola, vi spalmava una colla, rinforzando il tutto con delle grappette in filo di ferro incastrate nei forellini, ed il concon tornava come nuovo. Per ragioni di spazio, e per non rischiare di diventare noioso, ho citato solo alcuni dei mestieri di un tempo che sono caduti in disuso, ma c’e n’erano tantissimi altri, come il ramaio, lo spazzacamino, il vasaio, e così via. Resta il rimpianto per una sapienza millenaria che e andata perduta per sempre, se non per un flebile ricordo nella mia generazione, ormai anch’essa in via di estinzione.
Al monte
Come precedentemente promesso, oggi parleremo dei mestieri scomparsi nelle nostre cave.
L’ambiente estremo delle cave di marmo, ha nel corso dei secoli, sviluppato tecniche specifiche per ottimizzare il lavoro, formando contemporaneamente una categoria di lavoratori in grado di sfruttare al meglio quella stessa tecnologia. Ma dal tempo dello sfruttamento dei romani, fino al tardo Medioevo, il metodo era rimasto pressoché invariato, basato in un primo tempo su l’inserimento nelle fessure del marmo di cunei di legno, che quando poi venivano bagnati provocavano il distacco di porzioni di marmo, sostituiti poi, in epoca più recente, da quelli in ferro con la loro forzatura a martello. Fu solo nel 1569, sotto il Principe Alberico Cybo, che avvenne il primo vero balzo tecnologico con lo scoppio della prima mina. Questo nuovo modo estrattivo, oltre ad aumentare vertiginosamente la produzione, formò anche un nuovo mestiere
Al monte
il Fochino, o Fuchin.
Questa nuova figura professionale, è rimasta fondamentale per secoli, non limitandosi, come il nome potrebbe far pensare, solo all’accensione delle mine, bensì al loro posizionamento, alla quantità di polvere nera da usare, dalla loro profondità, e al loro numero. Era fondamentale rovinare meno marmo possibile nell’esplosione, non tanto per il suo valore commerciale, quanto perché i detriti, dovevano essere sgomberati dai piazzali e gettati, con carriole in legno nei ravaneti. Attorno agli anni cinquanta, e per altre un decennio, prese piede l’abitudine delle “varate.” Questo metodo, rivelatosi poi antieconomico, e distruttivo per l’ambiente, consisteva nel far brillare tonnellate di esplosivo, per generare una super mina che demoliva un intero fianco della montagna, ma il marmo estratto con questo metodo era di pessima qualità, e questa pratica venne presto abbandonata.
Il tallone d’Achille dell’attività estrattiva, per secoli, è sempre stato il trasporto dei blocchi di marmo verso valle. Così per sopperire a questa necessità nacquero i lizzatori.

Su come si svolgesse il loro lavoro sono stati versati fiumi d’inchiostro, e non mi sembra il caso di ripetere cose ormai note, mi vorrei invece soffermare su l’organizzazione delle Compagnie di Lizza. Si può tranquillamente affermare che queste associazioni operaie siano state le prime vere cooperative, anche se non si hanno notizie ufficiali o libri mastri a comprovarlo. Io personalmente, anni indietro ho effettuato interviste a vecchi lizzatori, per avere notizie inerenti il dialetto, e così facendo sono venuto a conoscenza di molti particolari della loro struttura sociale. La cosa che saltava subito all’occhio, era l’orgoglio di fare parte di una categoria d’elite, non tanto per quel che riguardava l’aspetto economico, che poi non era da sottovalutare, quanto dalla consapevolezza di essere padroni di loro stessi. Lavorando a cottimo, e a chiamata, per tutti i proprietari di cave, erano in grado, fino ad un certo punto, di contrattare in modo efficace tempi di lavoro e compensi, impedendo di fatto che i proprietari potessero formare un cartello al ribasso. All’interno di una compagnia, il numero dei componenti variava da dieci a quindici, la disciplina era ferrea, così come la posizione sociale e gerarchica dei propri membri, il capolizza era il leader assoluto, seguito dal sottocapo, e dai molatori, venivano poi gli altri secondo l’anzianità di lavoro. Il compenso dovuto dal proprietario di cava, era determinato dal peso della carica e dalla distanza dal “poggio” ossia il piazzale di arrivo, veniva spartito tra i componenti della compagnia in base alla mansione svolta, mentre una parte era destinata all’acquisto del materiale, come corde, sapone ecc. Questa pratica è definitivamente scomparsa nei primi anni sessanta. Mentre si parla moltissimo dei lizzatori, pochissimo viene detto dei bovari, eppure la loro esistenza è antecedente, è per secoli il trasporto con i buoi è stato l’unico possibile. Forse perché nell’immaginario collettivo il bovaro non veniva visto come un mestiere difficile o rischioso, ma questo è completamente falso. Era estremamente difficile fare muovere a l’unisono trenta o quaranta animali, tenuti a coppie da un giogo attaccato ad una lunga catena, per ottenere questo era necessario che ogni due, o quattro coppie di buoi, vi fosse un bovaro, di solito sedeva sul giogo e incitava gli animali con l’uso del pungolo. Nelle discese più ripide, per evitare che il carro carico di parecchie tonnellate potesse travolgere gli animali che vi erano attaccati, si usava la cosiddetta “trattenuta”o “ art’nuta” che consisteva nel trascinare con una catena un blocco di marmo di diversi quintali di peso che fungeva da freno. In un mondo dove anche la vita, e l’esistenza umane erano precarie, è palese che non si pensava certamente al benessere degli animali, al tempo visti come semplici “cose” da usare, così le cronache del tempo raccontano di crudeltà inaudite, di animali pungolati fino alla morte, e perfino di fuochi accesi sotto i musi per far rialzare animali sfiniti, ma anche di bovari travolti e calpestati dai buoi che non riuscivano a fermarsi in tempo. Gli animali più irrequieti erano segnalati con le corna tinte di rosso, che fruttava alle povere bestie una costante attenzione da parte dei bovari,con una generosa dose di pungolate ai loro quarti posteriori.
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Per poter essere trasportati agevolmente, i blocchi di marmo, che al momento dell’estrazione erano “informi,” dovevano essere riquadrati, questo era il lavoro del quadratore. Con l’ausilio di una subbia e di un mazzuolo, e staccando i pezzi più grandi con una mazza detta sca’pzators, questo operaio dava al blocco la forma di un parallelepipedo, così da poter essere impilato su altri. Immaginate la fatica di dover battere per otto ore con un martello di circa 4 kg di peso, e questo avveniva sotto il solo bruciante d’estate, e nel gelo d’inverno.
Quando le subbie si spuntavano, e il mazzuolo si deformava, si portava dal magnan. Costui non solo era in grado di riforgiare gli utensili danneggiati, ma riusciva anche a dare la tempra, cioè a rendere la punta dello scalpello più dura, per sopportare meglio l’usura.

Dopo lo scoppio di una mina, per eliminare eventuali sassi pericolanti dalla parete detta tecchia, entrava in azione il tecchiaolo o tecia’iol. Si faceva calare legato in vita da una semplice corda dalla cima della parete, e puntando i piedi contro la stessa, con un movimento a pendolo, usando un attrezzo detto pizzo, smuoveva e faceva cadere i sassi pericolanti, permettendo così di lavorare sul piazzale in tutta sicurezza. Con la scoperta del filo elicoidale nacque una nuova professione;

Il filista. Restata in uso fino a pochi decenni fa, questa tecnica,ha a poco, a poco, soppiantato l’uso della mina, e del quadratore, perché permetteva di velocizzare il lavoro tagliando il marmo per abrasione, con l’ausilio di acqua e sabbia. Era un operaio altamente specializzato, tanto da avere un salario più alto di un normale cavatore, dovuto anche al fatto che il controllo costante dell’operazione di taglio lo costringeva a lavorare a turno, compresa la notte.

Tutti questi mestieri un tempo comuni, sono oggi scomparsi per sempre, e se da un lato è un bene per quello che riguarda la qualità della vita, da l’altro è una perdita incolmabile di un pezzo della nostra storia. Un tempo le cave erano rispettate, considerate come luoghi da cui trarre il pane quotidiano, mentre oggi sono considerate solo come depositi di materiale da saccheggiare selvaggiamente. Un tempo con il marmo non si facevano dentifrici, ma opere d’arte di struggente bellezza, forse perché, come dice un’antica leggenda, è composto da polvere di stelle.
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