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Giochi perduti

Il modo di giocare dei bambini, è una vera e propria macchina del tempo, che si evolve e progredisce secondo il livello economico, e sociale della Società in cui si vive. Per questo il gioco è da considerarsi una parte importante della nostra identità culturale, quindi è senza dubbio importante per noi, da ricordare e preservare con cura. Mi piacerebbe per questo, che qualche lettore avanti negli ... anta come me, raccontasse i suoi giochi di quei tempi, dove non esisteva altro se non l'inventiva e la fantasia.
NONNI MODERNI

Nel primo dopoguerra in Italia, l’unica cosa che non mancava erano i bambini. C’è n’erano a frotte, di tutte le età, che giocavano e vivevano per strada, o nelle aie delle fattorie. Questo avveniva non perché i genitori non ponessero attenzione a loro, o alla loro educazione, ma solamente perché vi erano troppi bambini, e poche case, inoltre nelle strade del tempo, quasi tutte sterrate, il traffico automobilistico era pressoché inesistente, ed era molto difficile rimanere travolti da un barroccio, trainato da un cavallo. Nelle fredde e piovose giornate invernali, invece ci si riparava sotto qualche portico, un tempo presente in tutte le case coloniche, o nella stalla di questo o quel vicino. Ed è proprio di quei momenti che ho i ricordi più belli e nostalgici. Le famiglie del tempo erano patriarcali, e non era raro che nella stessa casa vi fossero presenti tre o quattro generazioni, così i nonni non mancavano, e specialmente quelli come me, al tempo molto piccoli, si radunavano attorno al nonno di qualcuno che magari, mentre mondava un ramo di salice per legare la vite, ci raccontava una favola. La stessa cosa avveniva nei pressi dei forni per il pane delle fattorie, situati spesso all’interno dei metati, ma qui le regine incontrastate erano le nonne, che vestite di nero, con l’immancabile sciallina di lana sulle spalle, anche in agosto, ci raccontavano delle storie fantastiche.
Devo dire che i nonni del tempo erano molto diversi da quelli attuali. Innanzi tutto erano quasi tutti senza denti, le mani nodose, simili ad artigli, con la pelle del viso rugosa, come un pezzo di carta stropicciata dalle mani di un bambino capriccioso, provati nel corpo e nello spirito, da una vita di fatica e privazioni. Così anche le favole che ci raccontavano erano tristi, spesso dei veri e propri racconti del terrore, dove i cattivi erano lupi, maghi, o l’immancabile Barbantana. A loro discolpa bisogna dire che essendo quasi tutti analfabeti, ci raccontavano le stesse storie che erano state raccontate loro dai loro nonni, che le avevano sentite dai loro, e così via. Per secoli la Società contadina non aveva subito cambiamenti, o se erano avvenuti, era stati così impercettibili da non essere avvertiti nell’arco di una generazione. Noi, anche se bambini, eravamo consapevoli che erano solo favole, e nessuno credeva veramente a ciò che sentiva. Ma era bello starsene seduti su una balla di paglia, mentre una nonna sferruzzando, ti raccontava con voce cantilenante la favola di “Pu’gtin” o della volpe e il lupo. Spesso noi piccoli ci appisolavamo, e quando ci risvegliavamo, ci accorgevamo che qualcuno ci aveva coperto premurosamente, magari con un sacco di juta tagliato a metà. Oggi sono anch’io un nonno, anche se moderno, perchè pratico regolarmente un pò di sport per mantenermi in buona salute, interagisco con i moderni mezzi tecnologici, come computer e cellulari, mi sposto in auto, ho un aspetto decente, ma nonostante tutto, quando racconto ai bambini della mia infanzia, sono paragonato ai nonni di quegli anni, cioè pensano che stia raccontando una favola. Eppure racconto fatti avvenuti circa sessanta anni fa!
Mi spiego meglio: Prima delle vacanze estive, alcune maestre cui sta ancora a cuore la nostra storia, mi chiesero se ero disposto, visto che interagivo spesso con i bambini, a fare nelle loro classi alcune lezioni sui giochi di un tempo. Io naturalmente accettai con entusiasmo. Stabilimmo con il corpo insegnante il numero e la durate delle lezioni, e affrontai la prima. Cominciai con il descrivere ai bambini, i giochi che io chiamavo da “fuori” cioè da praticare all’aperto, e notai subito che mi seguivano con scarso interesse. Allora domandai a uno di loro cosa ci fosse del mio racconto che non li convincesse, così dopo un momento d’imbarazzo, una bambina mi disse che non era possibile che un bambino si divertisse, nel gettare una piastra di marmo in una casella disegnata per terra e che poi saltellando, cercasse di riprenderla, perciò era certamente una favola! Capì così, che il modo di giocare, e i giocattoli dei miei tempi, erano inconcepibili, e soprattutto incomprensibili per un bambino di oggi, tanto abituato al benessere, e ai prodotti tecnologici, da credere che siano sempre esistiti.
Se volevo farmi capire, dovevo costruire, e mostrare “dal vivo” alcuni giocattoli di quel tempo. Non vi dico quanto dovetti penare per procurarmi i materiali: come le “carote” che erano lo scarto della lavorazione dei vasi di marmo da cimitero, indispensabili per costruire il ruzzolone, una volta comunissime, ma oggi introvabili. Anche gli elastici, fatti con le camere d’aria di bicicletta, e il “topone” di cuoio della fionda, sono stati duri da reperire, mentre ho dovuto purtroppo rinunciare alle palline di terracotta, fuori produzione da decenni, cui ho sopperito con quelle in vetro. Ho mostrato i “coccioletti” come si chiamavano i pentolini per le bambine, e costruito senza difficoltà una bambola di pezza, un boa, e una lippa, e con questi giocattoli “preistorici” sono tornato in classe, e solo allora la lezione ha avuto un grande successo, scatenando nei bambini la curiosità, e la voglia di discutere tra di loro, di come ci si potesse divertire, un tempo, con quella roba.
Così, solo con questo espediente ho evitato che il mio dire “c’era una volta” fosse percepito come l’inizio di una favola, raccontata da un nonno, anche se moderno.

Mario Volpi
25 agosto 2014
Giocare con le "femmine"
Spetta/Le Redazione
Giochi d'altri tempi, che bello quando Noi che.....
giocavamo all'aria aperta con Amici veri, avevamo poco ma eravamo FELICI DAVVERO.

La Società, retrograda e bacchettona degli anni 50, imponeva una rigida separazione dei sessi, questo anche, e sopratutto, in età infantile. Si pensi che alle elementari, la punizione più terribile per un alunno era quella di “mandarlo per un po in classe con le femmine.” Chiaramente questa mentalità faceva facilmente presa anche sul modo di giocare dei bambini, che non solo si dividevano per sesso, ma per i maschietti era quasi una missione andare a disturbare le bambine quando giocavano ai “coccioletti.” Vi erano però delle eccezioni, che avvenivano di solito nelle afose serate estive, quando i genitori dopo aver cenato, spesso insieme al vicinato, si godevano un po di fresco nelle aie dei casolari. Così noi bambini potevamo giocare insieme alle bambine, a dei giochi che non comportassero l'allontanarsi troppo dal rassicurante cono delle fievoli luci di stalle e porticati. Erano due i giochi preposti alla bisogna; uno, due, tre stella, e i quattro cantoni.

GIOCARE a uno due tre stella
Era sufficiente una parete, o un pilastro, dove chi era “sotto” potesse appoggiarsi per pronunciare la fatidica frase” uno, due, tre, stella!” Il gioco consisteva nll'avvicinarsi quando il penitente era girato, e fermarsi di botto quando questi si girava di scatto. Se ci si fermava in ritardo si doveva tornare alla posizione di partenza, vinceva chi arrivava alla parete senza penalità, prendendo così il posto del “contante,” il numero dei partecipanti era assolutamente ininfluente.

GIOCARE ai 4 cantoni
A questo giocosi poteva giocare solo in cinque, e aveva due varianti; la prima prevedeva quattro alberi, pali, o pilastri posti a quadrilatero, ma in mancanza di questi si disegnavano in terra quattro cerchi, ognuno dei quali al suo interno, vedeva posizionato un giocatore. Il gioco consisteva nello scambiarsi il posto l'un l'altro senza che il penitente, posto all'interno del quadrato riuscisse a fregarvi il posto. Questi erano considerati a tutti gli effetti”giochi da piccoli” ma vi posso assicurare che oltre a essere molto coinvolgenti, erano praticati in particolari momenti, anche dai bimbi, “grandi.” perchè i bambini quando si tratta di divertirsi, al contrario degli adulti, non badano troppo ai cosiddetti “luoghi comuni.”

Mario Volpi
'L cerc (il cerchio)
Spetta/Le Redazione
L cerc (il cerchio) come si dice in dialetto era un gioco difficile da avere, visto la difficoltà nel reperire i materiali, perchè, essendo ferro, era facilmente riciclabile, forse proprio per questo era uno di quelli più ambiti, e divertenti.

[image:image-1]Secondo gli storici, il cerchio è uno dei giochi più antichi dell'umanità, essendo raffigurato persino sui vasi della Grecia antica, e ricordato  in alcuni passi sui testi mitologici. Ma certo non era questo che a noi interessava, quando ci capitava la fortuna di mettere le mani su un cerchio in ferro. Questo era considerato un vero e proprio tesoro, visto l'abitudine al riciclaggio, normale per gli anni cinquanta. Poteva essere un cerchio di una botte in disuso, o quello molto più massiccio di una ruota di carro, o solamente una vecchia ruota di bicicletta, ma la felicità era la medesima. Ci si industriava per costruire una “bacchetta” di tondino, con un gancio guida all'estremità, o in mancanza di questa, andava benissimo anche un pezzetto di tavola di legno, con due chiodi che facessero da guida al cerchio, e il gioco cominciava. Vinceva chi faceva il percorso più lungo in linea retta, e senza far cadere il cerchio. Correre scalzi, sulle polverose, o fangose strade bianche del tempo, non era un'impresa facile, ma la felicità che se ne ricavava, valeva bene qualche escoriazione. Questo gioco era il più ambito, forse perchè non era sempre disponibile il materiale per farlo, cose semplici, riciclate, ma per noi preziose, perchè eravamo abituati, dalle ristrettezze economiche del tempo, ad accontentarci di quel poco che era possibile ottenere, sognando, e solo sognando,  il superfluo.
Mario Volpi

Giocare al “carro armato”
Spetta/Le Redazione
I giocattoli moderni sono fantascientifici, elettrici, con radiocomandi, o addirittura a raggi infrarossi. Bellissimi di sicuro, ma che fanno tutto loro, privando il bambino della vera essenza del gioco, la fantasia.

Tutte la “mamme” degli anni cinquanta cucivano, perchè il prêt-à-porter, oltre a non essere ancora stato inventato, sarebbe stato decisamente aldilà delle possibilità economiche della maggior parte delle famiglie di allora. Così in ogni casa era presente una “scatola del cucito” con all'interno aghi spille, ditali e numerosi rocchetti di filo multicolore. I rocchetti di allora però, al contrario di quelli attuali, erano molto massicci, e di solido legno, quindi quando si esaurivano si trasformavano in un fantastico gioco per noi “piccoli.” Per costruire questo prodigio meccanico dell'inventiva, occorevano cose molto semplici, a loro volta riciclati da altri usi. Si usavano un piccolo elastico, un fiammifero “sciccone”, un pezzetto di candela, o di sapone, a cui si praticava un foro centrale, e un chiodino da calzolaio. Poi dopo aver intagliato con il coltello delle tacche sul bordo del rocchetto per simulare i cingoli, si passava l'elastico attraverso il foro centrale del rocchetto di legno, fissandolo da una parte al chiodino, mentre dall'altra, dopo aver attraversato il foro della cera o del sapone, vi si posizionava il fiammifero. Ciò fatto si cominciava a girare per farlo torcere. Quando giudicavamo che potesse bastare, si posava in terra, e il “carroarmato,” quasi magicamente spinto dalla torsione dell'elastico, ma frenato dalla cera, avanzava lentamente ma inarrestabilmente, riuscendo a superare anche pozze d'acqua, o piccole salite. Erano inevitabili gare di forza, nel salire  pendii formati da cocciami di lastre di marmo, o di velocita subacquea, eseguita dentro le vasche del lavatoio pubblico, dopo averlo appesantito con alcuni giri di filo di ferro. Oggi un giocattolo così, senza una foto, impossibile da fare perchè i materiali originali sono introvabili, è difficile anche a spiegarlo, per cui ci si dovrà accontentare di uno schizzo, che spero provochi un sentimento di nostalgia in tanti “bambini” del tempo, per quella infanzia, magari dura e difficile, ma ricca di quello che ogni bambino desidera, ma che oggi purtroppo è scomparsa; la fantasia.

Mario Volpi

Giocare ai pifferi
Una delle attività preferite da noi bambini degli anni cinquanta, era certamente quello che  impropriamente chiamavano “giocare ai pifferi.” In realtà questo gioco consisteva nell'usare un'arma antichissima, la cerbottana. Le tipologie erano due, perchè la forma e il materiale per costruirla variavano secondo il tipo di proiettili che si doveva usare. Nel periodo estivo, si usava prevalentemente il tipo “vegetale,” perchè sia l'arma, che i proiettili, erano proprio... solo vegetali. I proiettili erano costituiti dalle bacche del Ligustro, un arbusto sempreverde un tempo comunissimo in ogni giardino. Questi si presentavano sotto forma di piccole pigne, piene di minuscole bacche nero-violacee, che noi staccavamo con attenzione, e sgranavamo diligentemente, riempiendocene letteralmente le tasche. La cerbottana invece, altro non era che la parte terminale della canna comune, il cosidetto pennacchio, anche esso in pieno rigoglio nel periodo estivo. Dopo averlo attentamente staccato e “spellato,” si passava al suo interno un sottile rametto di salice, per eliminare ogni eventuale aderenza, quindi, dopo esserci riempiti la bocca di bacche, si poteva sparare delle vere e proprie raffiche, che macchiavano impietosamente, sia le nostre bocche, che le magliette, con conseguenti urla e scapellotti da parte delle nostre madri.

La seconda versione, in origine era costituita da tubetti di ferro o di ottone, che ricavavamo dalla rottamazione dei lampadari.
Come si può ben intuire, non era cosa semplice procurarsene una, ma per fortuna all'inizio degli anni sessanta fecero la loro comparsa i primi tubetti di plastica, usati per passare i fili elettrici in edilizia. Per noi si aprì un mondo, con appena 10 £ si poteva comperare un metro di quel meraviglioso materiale, che significava per noi costruire almeno tre cerbottane, belle, leggere, e sopratutto diritte. I proiettili erano costituiti da strisce di carta da giornale, che noi abilmente arrotolavamo a cono, e poi tramite una leggera masticazione e saliva, chiudavamo sulla punta. Come tutte le “armi” anche la cerbottana subì un'evoluzione tecnologica, una molletta stendibiancheria forniva un comodissimo manico, e il successivo affiancamento di un'altra cannuccia leggermente sfalsata, ci forniva una fantastica “doppietta”. Anche i proiettili cartacei, che noi chiamavamo “pifferi” subirono delle modifiche. Si cominciò ad usare la carta velina, molto più resistente, che dopo la masticazione, se esposta al sole, forniva una punta pressochè indistruttibile, qualcuno volle esagerare, cominciando a inserire degli spilli sui pifferi per cacciare le lucertole, ma che purtroppo finirono per arrecare seri danni agli occhi di più di un bambino. La cartuccera erano i nostri capelli, e le battaglie tra le diverse “bande” come si chiamava allora le squadre, duravano ore, contribuendo, con tutte le loro controindicazioni, a far dimenticare per qualche ora, le miserevoli condizioni di vita del tempo.


Mario Volpi
Bomba

Io ho un nipotino di 5 anni che adoro, e come tutti i nonni di una volta, amo raccontargli le favole dei miei tempi. Così ieri, mentre gli narravo le vicende della piccola fiammiferaia, ho notato che non riusciva a capire il momento in cui la protagonista accendeva il fiammifero. Poi ho capito; non riusciva a visualizzare il fiammifero perchè non lo aveva mai visto. Così mi è tornato alla mente quando, poco più grande di lui, giocavo con i miei amici a “bomba” dove, proprio i fiammiferi erano uno degli “ingredienti” principali. Premetto che questo gioco si faceva di solito nelle giornate fredde o piovose, quando era impossibile andare sui prati, così al riparo di un portico, o all'interno di una tiepida stalla, si passavano ore in accanite sfide. Per prima cosa si costruiva la bomba. Questa era composta da un pezzo di carta gialla, perchè oltre che di facile reperibilità, era abbastanza rigida, quindi quattro fiammiferi “scricconi” come si diceva in dialetto, che altro non erano che semplici zolfanelli, un ago o uno spillo, e un elasticino. Io ho riprodotto, (vedi foto), una “bomba” moderna, costruita con stuzzicadenti, per far maglio capire come era fatta, perchè vi posso assicurare che trovare i materiali del tempo è impossibile, paradossalmente è stato più difficile trovare un ago oggi, che a quel tempo. Dopo aver rozzamento disegnato un centro con il carbone su del cartone, o sul pavimento in terra battuta, si cominciava il gioco. Questo consisteva nel lanciare in aria la bomba, cercando di farla cadere più vicino possibile al centro. Chi al termine dei tre tiri totalizzava più punti vinceva. Vi era anche un'altra versione che consisteva nel lanciare la bomba a freccetta, contro una vecchia porta o un albero, ma era meno divertente della versione originale. Come si può ben capire, l'ingegno, ma sopratutto “l'autarchia,” erano alle base dei giochi del tempo, che però avevano il merito di far socializzare gli individui, stimolando in loro un sentimento di sana competizione, che ci aiutava ad affrontare da adulti, il duro cammino della vita.

Mario Volpi

Oggi vi insegnerò come veniva costruita quest'arma che tutti i ragazzini dell'epoca possedevano per partecipare alla guerra dopo aver finito di fare i compiti al pomeriggio.
Occorreva : un manico di scopa di quaranta centimetri di lunghezza, un chiodino, una molletta per appendere i panni e una camera d'aria da bicicletta rossa perché era molto più resistente della nera. Cominciamo la costruzione del fucile, per prima cosa con un martello si impiantava il chiodino all'estremità del manico poi  presa la camera d'aria la si tagliava con una forbice ad anelli larghi mezzo centimetro a questo punto con una parte di questi si legava la molletta all'estremità opposta del chiodino ben allineata.
Fatta questa operazione si intrecciavano gli anelli di camera d'aria per fare l'elastico, leggermente inferiori alla lunghezza del fucile per far si che sparando il colpo si avrebbe avuta una gittata maggiore.
Di solito di munizioni ( elastico intrecciato ) se ne costruivano una decina per poter ricaricare il fucile durante la guerra che si sarebbe svolta fra bambini.
Dopo aver caricato il fucile per far partire il nostro elastico bastava premere il pollice sulla molletta ed il gioco era fatto.
Chi era colpito dall’elastico doveva abbandonare la partita, il vincitore e capo assoluto per quel giorno era colui che non veniva mai colpito.
Detto anche gioco della lippa.
Questo gioco consisteva nel fare un curletto di legno con all'estremità due punte. Il giocatore colpendo con un manico di scopa vecchia doveva colpire il curletto e lanciarlo il più lontano possibile.
Il piccolo tesoro era semplicemente una composizione di fiorellini depositati in una buca scavata nel terreno da noi bambini. A filo del terreno sulla buca si poneva un vetrino trasparente che lasciava intravedere il " Piccolo Tesoro ".
Quando eravamo  bambini, uno dei giochi preferiti era quello di far le gare con i tappi di ferro delle bottiglie. Ci posizionavamo sui muretti di casa e giocavamo tutto il giorno. Era una competizione anche il cercare i tappini più belli e personalizzarli con i nomi dei ciclisti di all'ora. (Gimondi - Bitossi - Guerra )
Io mio preferito era Eddy Merckx.
Per questo gioco era necessario un cilindro di marmo con due fori all'estremità in cui veniva infilato un pezzo di ferro a forma di U al quale veniva legata una corda e i bambini si divertivano a far rotolare il cilindro che produceva un gran fracasso.
Il "grillo", non era un vero e proprio gioco. Il grillo era una specie di bicicletta / carretto a tre ruote ed aveva un piccolo manubrio semicircolare. Con solo 500 lire si poteva tenerlo tutto il pomeriggio presso la pineta davanti al Club Nautico. La pineta era il luogo ideale per pedalare e fare magnifiche corse.
Le bambine di un tempo fingevano di cucinare usando cocci di piatti vecchi e scatoline della patina da lucido per scarpe.

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