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Ricette locali carrarine

Di Cybo in Cibo
RUBRICA A CURA DI CHIARA
Cucinare è la mia passione da sempre, ritengo che sia rilassante e creativo dedicargli qualche ora. Sono convinta che serva molto amore per realizzare un piatto, chiunque ci mette amore ottiene risultati soddisfacenti. Le mie ricette sono ciò che mi hanno trasmesso mia madre, mio padre e la nonna, a volte corrette, a volte identiche. Adoro la cucina tradizionale, quella tipica locale della mia Marina e dai sapori di casa. Quella che da meno importanza alle grammature  e molta ai ricordi di infanzia, al calore della famiglia. I piatti che odorano di buono, di casa, di mamma…..
C.P
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Le Cantine di Carrara
Un cugino di mia madre che faceva lo spedizioniere, a proposito degli odiati- amati camalli, diceva:

"Primma annàvan  pe ostàie a béie de barbére; òua vàn in ti bar e béivan di gotti de lète cumme i americhén du cine".
Questo accadeva nella Genova degli anni Sessanta, ove ero tornato a vivere ed a lavorare come un mulo, attaccato alla macchina da scrivere dieci-dodici ore al giorno  (sabati compresi) all'ufficio registrazioni della più grande ditta italiana di trasporti a collettame dell'epoca.  
In quel momento storico, la società italiana si stava trasformando sotto i colpi del consumismo e ne erano segno evidente gli scaricatori di porto che avevano sostituito
al barbera delle osterie il latte dei bar. Prima ancora, però - ed ero poco più che un bimbo - i casi della vita mi avevano portato a vivere una decina d'anni a Carrara, città mineraria e dalle passioni politiche esasperate, proletaria quanto basta ed, a detta di una romana impiegata all'Inps, abitata da alcolizzati.
Questo non era vero; o, almeno, lo era in parte.
Alcolizzati, no: solo qualcuno che aveva finito i suoi giorni a Maggiano od a
Volterra nelle spire del delirium tremens, ma erano davvero pochi. Qualcun altro era, invece,  andato nel mondo dei più per via di cirrosi epatiche allora incurabili: come ora.  
Casomai c'erano tanti avvinazzati, nel tardo pomeriggio ed alla sera dopocena.
Il rito era questo: terminato il lavoro alle cave, nelle segherie, nei laboratori di architettura e negli studi di scultura, gli operai non tornavano a casa. Andavano per osterie, che a Carrara si chiamano cantine..  
Ed andar per cantine non voleva dire solo visitarne una o due, bere un paio di bicchieri e poi tutti a casa.  
No: significava visitare più o meno tutte quelle della città vecchia e di quella ottocentesca.
Dal Cafaggio alla Lùgnola, per capirci; e da San Francesco alla Ghiacciaia.
L'arredo delle cantine di Carrara era composto da un bancone di marmo bianco e di bardiglio grigiastro arricchito da un piano di zinco, ove erano disposti con ordine i bicchieri (bic'réti, bicéri veri e propri e cavalerie: quest'ultime bicchieri da un quarto); poi c'era un acquaio ove lavare i bicchieri, ed uno scaffale dai ripiani di marmo con una serie di fiaschi pieni del vino della casa e qualche mazzo di carte da quaranta piuttosto bisunte. Alle pareti, oleografie di scene di opere: in genere di Verdi
Poche seggiole impagliate sul tipo di quelle da chiesa, ed ancor minor numero di tavoli ove fare qualche partita a briscola , unico gioco ove è ammesso parlare: e, infatti, le partite di briscola che si giocavano nelle cantine di Carrara erano, per i benpensanti, cose disdicevoli, perché spesso intercalate da rosari di mòccoli e di parole sconce. Molte cantine erano gestite da donne, ed allora si andava dalla Mora, dalla Carò, dalla Suntina e via elencando.  
Gli osti erano in genere gente del luogo, ma non mancavano i forestieri che vi avevano fatto fortuna: come il Ponsacchino che aveva come specialità le acciughe salate sottolio in salsa di prezzemolo ed aglio, per stuzzicare l'appetito e la voglia di bere ancora.
Per tali nobili scopi, qualcun altro aveva sul banco anche un tegame di terracotta con il piatto che più carrarese non si può: il bacalà'nmarinàt, che è una infernale versione carrarese del baccalà alla livornese, e cioè uno stufato di baccalà cotto nell'aceto in salsa di pomodoro con aggiunta di rosmarino, aglio ed, ad libitum., di peperoncino.
Quante erano le cantine della città? Nessuno ha mai fatto la conta della quantità, ma si può invece dire che c'era già all'epoca una specie di qualità. Una specializzazione, insomma.
C'erano le cantine che mescevano il vino di Sorgnano (rosso), quelle che somministravano quello di Candia (bianco: sia secco (brùsk) sia amabile (dòlz)), sia quelle che avevano il vino della Spondarella sia quelle che avevano quello di Fìcola.  
E questo per parlar di prodotti nostrani: di vini, cioè, di produzione del luogo che non andavano oltre l'ambito locale.  Già a Sarzana, per esempio, non  ne conoscevano l'esistenza.
Poi, c'erano altre cantine che sbolognavano vini di incerta provenienza ma spacciati per toscani (Chianti?) e veronesi (Bardolino?); ma erano vini da bicchiere dell'ultima staffa, quando i fumi dell'alcool cominciavano ad annebbiare le menti.
A Marina, poi, alcune cantine mescevano il massaretta, che era un vino violaceo tendente al blu che macchiava i piani di marmo dei tavoli delle cucine e non c'era varechina che tenesse.
Dicono che fosse prodotto da un vitigno piemontese (barbera?)  fatto attecchire nei terreni sabbiosi ancora impregnati di salmastro - residuo dell'arretramento della costa di qualche secolo prima  - che arrivano fino alle porte di Avenza.  
E' ovvio che il massaretta era venduto a poche lire al bicchiere ed era disdegnato dagli intenditori che lo consideravano roba da marinelli: gente, quest'ultima, considerata un  po' spilorcia, dato che aveva imparato il valore del denaro navigando, ed aveva preso le abitudini dei marinai genovesi.
I carraresi di città e dei paesi a monte, invece, erano di manica molto larga spendaccioni e, di conseguenza, spesso squattrinati.
Solo gli astemi, a volte guardati con sospetto altre con  ammirazione, riuscivano a far studiare i figli e spesso davano loro posizioni socialmente invidiabili: molti medici, ingegneri ed insegnanti, infatti, erano figli di astemi.
Gli altri, invece,  che erano i più, queste cose non riuscivano neanche a concepirle perché tutta la quindicina, salve le poche lire date alle mogli per le cose di ordinaria amministrazione, andava a finire in bevute.  
Ed i figli? Continuavano, ovviamente, il mestiere dei padri: cavatori, lizzatori, riquadratori, scalpellini, scapezzatori, sbozzatori, ornatisti e scultori, tantoché la retorica dell'operaismo dell'epoca diceva che i mestieri del marmo si tramandano di padre in figlio.
Poi venne la televisione: il Festival di Sanremo, Lascia o Raddoppia, il Musichiere, Primo Applau-so, i varietà con Gorni Kramer e la sua orchestra e le partite della Coppa dei Campioni.
La tivù si poteva vedere solo nei bar un po' elegantini: e allora, per contentare la moglie,. qualcuno azzardò e comprò un televisore a rate, firmò etti di cambiali, ma cominciò a passare le serate inchiodato davanti a Nunzio Filogamo,  Mike Bongiorno Enzo Tortora, Mario Riva e Niccolò Carosio..
Fu la fine delle cantine di Carrara.

Mario Volpi
Carrara: Ricette di una sapida cucina quasi sconosciuta
La cucina carrarese è quasi sconosciuta perché ieri non ha avuto il suo Vincenzo Buonassisi e perché oggi i media parlano solo di una cucina toscana imbastardita con quella fiorentina, dimenticando cacciucchi livornesi, inzuppe pisane, bordatini lucchesi, muscoli (e non cozze: non siano a Napoli) ripieni alla viareggina e chi più ne ha più ne metta.
Ma il lettore accorto potrà scorgere nelle ricette carraresi un qualcosa di più che non sia la solita banalità delle tivù: un redattore di Carraraonline  le spiega ai navigagtori di eccolatoscana:
G.Bezzi
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