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Un Natale di grande letizia

Una Volta Invece
Spetta Redazione
Il Natale è da sempre festa religiosa che avrebbe dovuto portare anche grande letizia, ma una volta ...

Anche nei tribolati anni cinquanta, il Natale era la festività religiosa più importante dell’anno, ma la Società rurale del tempo, si preparava a festeggiarlo in un modo un pò diverso da quello odierno. Io descriverò, i preparativi che si facevano in una famiglia a mezzadria tipica del tempo. Innanzi tutto bisogna specificare cosa si intendeva per mezzadro, ossia quel lavoratore terriero che lavorava un terreno non suo, dividendone con il padrone del fondo le spese e i ricavi. A dirla così sembra una cosa equa e giusta, ma nella realtà non lo era per nulla. Vi erano terreni molto estesi, con appezzamenti divisi tra vari mezzadri, con a capo di tutti il Fattore, ossia colui che svolgeva le veci del padrone, spesso un Ente come una Banca, o persone molto facoltose neppure residenti sul territorio. A tal proposito voglio riportare un vecchio adagio che ben descrive la figura professionale di questo personaggio, che in dialetto carrarino recitava così ; “ fam Fator un an se a perirò al sirà me dan!” (fammi Fattore un anno se perirò sarà mio danno.) Questo la dice lunga sull’equità nella gestione del fondo a mezzadria da parte di simili personaggi. Ma torniamo al Santo Natale. Innanzi tutto bisognava “rifinire” i capponi che si dovevano dare al padrone. Questa incombenza iniziava un mese prima, rinchiudendo i capponi in angusti recinti, per evitarne il più possibile i movimenti, e allo stesso tempo aumentandogli considerevolmente il cibo, composto soprattutto da leccornie appetitose come le camole della farina, lombrichi, lumache, e frutta marcia, ingredienti mescolati con l’unica erba ancora fresca e rigogliosa in questo periodo, “la gambirossi”(Parietaria.)Per chi non fosse addentro alle cose agricole, vorrei spiegare cosa sono i capponi. Erano dei galletti che all’età di circa due mesi la massaia castrava, per farli aumentare di peso, praticando un’incisione sul lato del ventre per raggiungere i testicoli, che dopo essere stati asportati si provvedeva a suturare con del filo forte, seguiva poi il taglio della cresta, e il tutto era disinfettato con cenere calda. Anche se estremamente brave, alcuni esemplari morivano, ma questo non cambiava assolutamente il numero dei capi da consegnare al padrone. Questo per dire come fosse equa la spartizione di costi e ricavi tra mezzadro e padrone. Per i tacchini invece, circa due mesi prima, lì si confinava in un angusto recinto, e poi si procedeva a una pratica che oggi farebbe inorridire, ma che al tempo era del tutto normale, ossia “l’impitamento.”( il tacchino in dialetto si chiama Pito) Si prendeva il tacchino, di solito solo i maschi, e dopo averlo imprigionato tra le gambe delle massaia seduta su uno sgabellino, si procedeva ad impitarlo, ossia lo si ingozzava forzatamente con una pappa semiliquida composta da farina bianca, fioretto, e crusca, mescolata con camole e Parietaria tritata. Per ingozzare l’animale almeno cinque volte al giorno ci si aiutava con “l’impitator” ossia un apposito bastoncino di legno di salice, scelto per la sua flessibilità. Il tacchino, così impitato arrivava a pesare anche 15 kg, mentre da pulcino è assai fragile, e a cause delle difficili condizioni igieniche in cui erano fatti vivere, era soggetto a un alto tasso di mortalità, per cui di una covata di 15, 20 esemplari se ne salvava magari solo tre o quattro che dovevano essere destinati al padrone. Il mezzadro nel mese di novembre, provvedeva anche a raccogliere dall’albero le pere fatte nascere dentro le bottiglie, che dopo essere riempite di grappa venivano date al padrone. Al tempo però, la distillazione era rigorosamente vietata, perché Monopolio di Stato, quindi si aspettava una nottata piovosa, che mascherasse in qualche maniera l’eventuale odore, e nel granaio, a porte chiuse si accendeva il fuoco sotto il rudimentale alambicco per distillare, la “vinella,” magari risultata troppo debole, insieme al vino che aveva preso lo “spunto”, o con quello contaminato dal cadavere di qualche topino entrato nella damigiana, oltre alla frutta mezza marcia fatta fermentare qualche giorno. Anche per questa operazione, all’apparenza semplice, esistevano dei veri e propri “artisti” ossia persone che riuscivano a dosare in modo magistrale la grappa che usciva dall’alambicco a 70°, mescolandola sapientemente con l’acqua, che veniva distillata a questo scopo, per portare il tutto attorno ai 42°, ma soprattutto conferendo al liquore un gusto morbido, che veniva poi affinato e arricchito facendolo invecchiare in piccole botti di legno. Anche di questo nettare distillato una damigianetta minimo da venti litri, o una botticella di uguale capacità, erano ovviamente date al proprietario del fondo. Qualche Fattore diceva che il “padrone”( chi sa se poi era vero!) chiedeva al mezzadro anche la consegna di fasci di Agrifoglio, che si dovevano andare a tagliare nel bosco, che venivano usati per adornare le porte delle famiglie ricche, mescolati con il Vischio, che il mezzadro dava a malincuore perché serviva per ricavare una potente e indispensabile colla topicida. Negli primi anni sessanta, poi, cominciò la tradizione degli alberi di Natale, che sempre il “solito” padrone del fondo chiedeva al mezzadro. Non essendo il territorio Apuano montano, e non esistendo ancora vivai, si sostituiva l’Abete, con alberelli di Ginepro, arrecando inconsapevolmente un enorme danno al patrimonio boschivo. Anche l’uva più bella, fatta appassire nel fienile era scelta, mondata accuratamente dagli acini marci, e dopo essere stata artisticamente adagiata in cassettine di legno, e adornata con rametti di alloro, era inviata come dono Natalizio al padrone. Ovviamente tutti questi ”doni” erano consegnati al Fattore, e penso che mai nessuno abbia saputo quanti di questi, siano davvero arrivati sulla tavola del padrone del fondo, o più verosimilmente finiti sul bancone di vendita di qualche negozio. Così mentre il Natale per il mezzadro era un giorno di lavoro e fatica come un altro, per un Fattore “parassita” era motivo di grande letizia, e non certamente per motivi religiosi.
Mario Volpi 24.12.22
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