Il grande viaggio - carraraonline.com

Sezione a cura di Mario Volpi
Vai ai contenuti

Il grande viaggio

Racconti
Spetta/Le Redazione
 
Alcuni giorni fa ho partecipato al ottantatreesimo compleanno del mio amico fraterno Marcello ( Il nome è stato cambiato) che mi ha raccontato gli esordi della sua attività di imprenditore, che è finita diversi decenni fa a favore dei figli. Siccome è un racconto ricco di dettagli di un tempo ormai passato, che merita di essere descritto, ho pensato di dividere il racconto a puntate, spero che ai nostri lettori piaccia.

Mario Volpi

Eravamo a metà degli anni cinquanta quando il babbo di Marcello morì all’improvviso, forse d’infarto. Giusè, il nome completo era Giuseppe, ma tutti lo chiamavano col diminutivo, aveva uno “studio” come in dialetto carrarino (carrarese), sono chiamati i piccoli laboratori per il taglio e la lucidatura del marmo. Con appena quattro dipendenti, l’attività riusciva a malapena, tolte le spese, a sostentare la famiglia, ma con la morte del titolare le cose si complicavano molto. Marcello aveva compiuto diciotto anni da pochi mesi, e aveva dovuto lasciare l’ultimo anno della scuola del marmo Pietro Tacca di Carrara, che frequentava con profitto, per cercare di salvare l’attività. Norbè (Norberto) era l’operaio più anziano che, pur senza alcuna ufficialità, svolgeva mansioni da capo operaio, e anche in questa tragica fatalità, non mancò di dare il suo aiuto decisivo. Dopo poco tempo, a Marcello fu chiaro che la situazione dell’azienda era fallimentare. Il padre, aveva investito tutto sulla scommessa che il marmo, dopo la parentesi sanguinosa della guerra, sarebbe ripartito alla grande, e aveva comprato tre nuove lucidatrici e una fresa, che ora, per altri tre anni avrebbe comportato il pagamento di una sostanziosa “cambiale” mensile. Dopo essersi consultato con la madre, il giovane, convocò una riunione nel laboratorio, dove spiegò la sua situazione finanziaria, ma disse anche che credeva ciecamente nelle previsioni del padre, che non aveva mai sbagliato, e assicurò che avrebbe voluto provare a tirare avanti. Questo avrebbe comportato che gli stipendi alcune volte sarebbero arrivati in ritardo, se non addirittura saltati per un mese, ma che lui era intenzionato non solo a pagarli, ma che secondo il lavoro, avrebbe elargito anche sostanziose gratifiche, erano tutti d’accordo? Gli operai accettarono, e Marcello si gettò anima e corpo nella ricerca spasmodica di nuove commesse. La scuola gli aveva dato una buona base teorica, ma solo Norbè, era in grado di insegnargli la pratica. Con la sua decrepita Lambretta, si recava quasi quotidianamente alle cave, in cerca di un “affare” ossia un informe che costasse poco, o qualche pezzo difettato, ma che tagliato in modo particolare potesse comunque fruttare delle buone lastre. Il suo saggio, ed esperto capo operaio, gli aveva consigliato di salire alle cave più inaccessibili, dove i proprietari, erano più inclini a liberarsi per poche lire di un pezzo con “’l pel, ” (il pelo) come in dialetto era chiamato un difetto nel marmo. Un giorno si trovava sulle cave più alte in assoluto, sul monte Sagro. Aveva lasciato la fida Lambretta a Campocecina e con il cavallo di San Francesco, era salito fino alla cava. Il tempo era minaccioso, nuvoloni neri si stavano avvicinando dal mare, e si sgrovigliavano tra loro, aggrappandosi alla cima del monte, quasi temessero che il vento li spazzasse via. Stava parlando con il vecchio capocava, quando vide salire tre muli, accompagnati da un mulattiere. Due erano carichi di sabbia, ma uno aveva uno strano carico, una donna. Arrivati a pochi passi dal piazzale, una saetta disegnò in cielo un arabesco di fuoco, seguita da un potentissimo tuono, che amplificato dall’eco, sembrò volesse spaccare in due la montagna. Fu un attimo. Il mulo di testa, scartò di lato spaventato, provocando il panico incontrollato negli altri due, che sgroppando e scalciando cercarono di fuggire. La giovane donna, fu sbalzata di sella come una bambola di pezza, e dopo un rocambolesco volo, atterrò sul morbido fango del piazzale, che ne attutì l’impatto. Marcello si precipitò ad aiutarla, la ragazza era semisvenuta, ma forse più per la paura che per il colpo, presala tra le braccia, la portò alla capanna, dove le lavò il viso completamente imbrattato di fango con l’acqua fresca, presa dal vicino “boz” (serbatoio). Era una bella ragazza, che lui giudicò sulla trentina, con i biondi capelli legati sulla nuca a formare una fluente coda, la carnagione del viso era di un bel roseo, che a lui ricordava tanto il colore delle gote della grossa bambola che la madre teneva sul letto. Con due leggeri buffetti sulle guance, cercò di risvegliarla, e quando finalmente ci riuscì, poté chiederle dove sentisse dolore. Intanto fuori la bufera si era scatenata in tutta la sua violenza. Un vero e proprio torrente d’acqua stava scendendo dal cielo, accompagnato da fulmini che illuminavano la spartana capanna in pietra. Accertato che la rovinosa caduta, non aveva causato alla donna gravi conseguenze, se non la completa infangatura degli abiti, Marcello accese il rustico focolare, per fare asciugare gli abiti che cercava maldestramente di pulire con un cencio umido. Il temporale dette tempo ai due giovani di fare una prima fugace conoscenza, e quando dopo poco il nubifragio finì, Marcello conosceva già il nome della donna, sapeva che era un architetto, che da Firenze era venuta a Carrara in cerca di un marmo particolare, per un lavoro particolare. Immediatamente nella sua mente, scattò il pensiero dell’imprenditore, che soggiogò completamente quello del buon Sammaritano innamorato. Pensò che se avesse giocato con intelligenza le sue carte, avrebbe potuto dare un pò di respiro alla sua attività sull’orlo della bancarotta. Così, quasi per caso le raccontò che era un imprenditore, e che si trovava lì per fare un grosso ordine di marmo per un importante lavoro, poi si offrì di darle un passaggio sulla sua Lambretta, e arrivato a Carrara, la scortò all’albergo dove alloggiava, la salutò dandole il numero di telefono, omettendo che era quello del posto Fisso di Fossola. Prima di tornare a casa, passò dal tabaccaio di Fossola che lui conosceva bene pregandolo di farsi passare per un dipendente se una tal signora avesse chiamato, quindi sfinito, si recò a casa.
Il giorno dopo, passò dal tabaccaio che gli riferì che la signora aveva effettivamente chiamato, e che gli aveva detto se poteva passare da suo albergo nella mattinata. Tornò a casa e si vestì con gli abiti migliori che aveva, poi inforcata la Lambretta si recò all’appuntamento. L’architetto, questa volta lo accolse con uno smagliante sorriso, e lo fece accomodare nella sua stanza. Era vestita con uno di quei nuovi abiti moderni che chiamavano “ a tubino” di color bianco, che le lasciava scoperte le spalle e le braccia, e le disegnava una perfetta siluette, era bellissima e lei ne era consapevole ma Marcello, pur facendo sforzi immani, continuò nel suo disegno, comportandosi come se per lui incontrare persone così belle e importanti fosse cosa di tutti i giorni. La donna disse che voleva ringraziarlo per l’aiuto prestatole, inoltre, sapendo che lui era del settore, le sarebbe piaciuto avvalersi della sua consulenza per trovare il marmo che cercava. Marcello, sentì dentro di se la gioia esplodergli nel petto, ma facendosi forza per non manifestarla le rispose, quasi con sufficienza, che sarebbe stato lieto di aiutarla, e le propose di parlarne davanti a un bel piatto di una specialità carrarina, in una trattoria caratteristica che lui conosceva. Questa fu una mossa magistrale, perché, oltre a mascherare l’ansia che lo divorava, gli consentì di portarla in un posto che frequentava abitualmente, dove lui era ben conosciuto, e si sentiva a suo agio. La padrona della trattoria, colse subito l’impercettibile segno d’intesa del giovane, ma immaginando una situazione amorosa, dopo averlo salutato calorosamente, li mise in un tavolo appartato, e dopo aver preso le ordinazioni, li lasciò tranquilli. La ragazza mangiò di gusto i famosi taglierini nei fagioli della Marì, e gli occhi cominciavano a farsi più brillanti dopo un paio di bicchieri di quello buono di Candia. Così, facendo finta che fosse solo un modo per fare due chiacchere, Marcello venne a sapere che lei era figlia del titolare di un grosso studio d’architettura di Firenze, che aveva avuto l’incarico da una Società americana, di rivestire in marmo bianco di Carrara, due enormi grattacieli che erano in fase di costruzione a Chicago. Si parlava di migliaia di metri quadri, e lei era venuta a Carrara per vedere il tipo di marmo più adatto allo scopo. Marcello non si fece scappare l’occasione, e le disse che se lei avesse voluto, all’indomani, avrebbe trovato un momento libero dal lavoro per accompagnarla al suo studio, per fargli visionare alcuni campioni di marmo che stava lavorando per un cliente. Avuta la sua entusiastica approvazione, il giovane dopo averla riaccompagnata in albergo, filò come un razzo in laboratorio, e raccontò tutto. Subito Norbè, dopo aver ordinato agli uomini di cominciare a rassettare lo studio, disse in dialetto a Marcello “va da la Zopa e compr un po d pan e aftat p’r tutti p’rcosa stanota a fian notata, me a dev scapar! A pi ‘l motocaro.” ( vai dalla Zopa a comperare pane e affettato per tutti perché facciamo nottata io devo andare! Prendo il motocarro). Dopo circa tre ore fu di ritorno con il cassone pieno di lastre di diversi tipi di marmo, grigio, statuario, nuvolato, venato, arabescato, calacata, una varietà così grande che neppure Marcello aveva mai visto tutto insieme. Usando la sua grande esperienza, Norbè aveva fatto il giro delle segherie, prendendo pezzi di scarto di diversi tipi di marmo, che ora si apprestava a far lavorare. Per tutta la notte le lastre furono levigate, lucidate, e tagliate in piccole piastrelle da dieci centimetri per dieci, ideali da mostrare come campione. La mattina dopo, quasi trenta campioni facevano bella mostra di se, su un mobiletto che si trovava nel piccolo e scalcinato ufficio del laboratorio. Al pomeriggio come d’accordo, Marcello si recò a prendere l’architetto in albergo, questa volta con uno dei rari taxi del tempo, per portarlo allo studio, dove gli uomini, ben istruiti da Norbè, fecero finta di essere talmente presi dal lavoro che non alzarono neppure la testa. Marcello la condusse in ufficio e le mostrò i campioni, che sul retro avevano un numero, spiegandogli che sarebbe bastato citare quel numero perché lui sapesse il tipo di marmo scelto. In via eccezionale però, poiché doveva andare a Firenze, poteva prenderli e portarli via, per esaminarli con calma. La ragazza rimase piacevolmente stupita dalla generosa efficienza, e professionalità di Marcello, che crebbe ancora quando, con noncuranza, chiamò Norbè che accorse per “incassare” i campioni, in una cassetta già pronta, come se fosse un’operazione che faceva abitualmente. Dopo circa dieci giorni, il tabaccaio venne a riferire a Marcello che lo aveva cercato una signora da Firenze che voleva che si mettesse in contatto con lei. Marcello non stava più nella pelle e corse a comunicare la notizia agli uomini, che cominciavano già a perdere le speranze. Al telefono Patrizia, perché così si chiamava l’architetto, lo invitava a recarsi a Firenze perché erano indecisi sul tipo di marmo da ordinare, e volevano alcune delucidazioni. Marcello fece uno sforzo pazzesco, per non urlare dalla gioia, ma conservando il sangue freddo finse di consultare a bassa voce i suoi impegni di lavoro, poi le disse che sarebbe potuto partire da lì a tre giorni, a lei stava bene? L’architetto le rispose di si, e che si sarebbero visti alla Stazione Santa Maria Novella di Firenze. Quella sera allo studio arrivò un vassoio di cannoli di Vangè il pasticcere, accompagnato da una bottiglia di spumante Gancia. Marcello aveva deciso di portare con sé anche Norbè, perché non era certo di saper rispondere a eventuali domande sui vari tipi di marmo, ma lo aveva istruito di parlare solo su argomenti inerenti al lavoro. Il giorno stabilito il tram li portò alla Stazione di Avenza, dove presero un lentissimo “accelerato.” Giunti a Firenze trovarono ad aspettarli Patrizia che dopo averli salutati, li fece salire su una Fiat 1100, con il nome dello studio di architettura stampato in lettere corsive dorate sulle portiere. Arrivarono dopo pochi minuti nel centro di Firenze. La sede era in un antico palazzo pieno di stucchi e bassorilievi, sul pesante portone d’ingresso di legno massello, campeggiava una targa di ottone tirata a lucido con il nome dello studio. Il padre di Patrizia, era una persona distinta che metteva quasi soggezione, con barba e pinzo ben curati, di un bianco candido come la chioma di capelli che teneva leggermente lunghi sul collo. Li fece accomodare in un salone, grande quanto il piazzale del suo laboratorio, con le pareti quasi interamente ricoperte da quadri con le cornici dorate, e arazzi antichi. Su un mobiletto intarsiato faceva bella mostra di se un gigantesco apparecchio televisivo, una vera novità, che Marcello non aveva ancora mai visto. Posati su un tavolo di legno lucidato a specchio, con le gambe a tortiglione, vide subito i suoi campioni di marmo. Patrizia e il padre, descrissero le caratteristiche del tipo di marmo che avrebbero voluto, e sotto le sapienti domande di Marcello, Norbè con grande professionalità li aiutò a scegliere il tipo giusto. Stabilirono le quantità necessarie, e le cifre erano da capogiro, poi Patrizia e il padre li invitarono a pranzo in un ristorante lì vicino, ma i due, intimoriti dall’ambiente raffinato, e con lo stomaco chiuso per la felicità, non mangiarono quasi nulla.
Terzo capitolo

Nel pomeriggio, cercarono di trovare un accordo sul costo del materiale, e qui Marcello aiutato da Norbè, cercò di non sbilanciarsi troppo, dicendo che, per assicurare l’uniformità, avrebbe dovuto acquistarlo tutto in una sola cava, con i rischi che questo comprendeva, per le condizioni climatiche, il trasporto e così via, riuscendo a spuntare un prezzo abbastanza buono. Rimasero d’accordo che lo Studio di Architettura avrebbe inviato una lettera in America, con il preventivo di massima, le quantità, i tempi di consegna, e soprattutto il tipo di marmo da impiegare. Norbè saggiamente aveva detto che prima di iniziare qualsiasi lavorazione, sarebbe stato necessario una lettera d’intenti da parte dello Studio o della Compagnia, e un anticipo per le spese, versato presso la Cassa di Risparmio di Carrara.
Quando tornarono a casa, Marcello era al settimo cielo dalla gioia, e disse a Norbè che finalmente dopo tante disgrazie, forse la dea bendata si era ricordata di lui. Dopo un mese di spasmodica attesa, il postino recapitò una raccomandata da Firenze. Era la lettera d’intenti, chiesta da Norbè, firmata dal Direttore Generale della Compagnia americana, e la copia di un sostanzioso assegno depositato in banca, e soprattutto l’accettazione totale del preventivo. Unica nota dolente, che gli creò un grande stato ansioso, fu che la firma del contratto doveva avvenire a Chicago da lì a quindici giorni, era tassativa la presenza del titolare della Ditta ossia Marcello, tanto che gli era stato inviato addirittura il biglietto aereo della Pan America, con imbarco a Roma. Preparare i documenti come il Passaporto e tutto il resto, servì a calmarlo un poco, ma per un ragazzo di diciotto anni che non si era mai mosso da Carrara, senza conoscere una parola d’inglese, e soprattutto con pochissime risorse finanziarie, questo si prospettava davvero come un grande viaggio, paragonabile a quello sotto i ghiacci polari, fatto del sommergibile americano Nautilus l’anno prima! L’assegno spedito dall’America, infatti, era vincolato, e destinato quasi interamente all’ordinazione di marmo e alle conseguenti spese di lavorazione e stipendi, quindi per il viaggio riuscì a racimolare poche migliaia di lire. Salì in un deserto scompartimento di Terza Classe di un treno direttissimo ad Avenza, in una piovosa notte di gennaio, avrebbe viaggiato tutta la notte per arrivare a Roma, alle prime luci dell’alba, per prendere il volo che sarebbe partito a mezzogiorno in punto. Stazione Termini nonostante fosse mattina presto era piena di gente, e lui, non senza fatica arrivò all’uscita. Qui decise di non rischiare, e anche se intaccava le sue scarse riserve di contante, prese una meno costosa Topolino taxi, per l’aeroporto di Ciampino. Arrivò alle dieci del mattino, e dopo avere svolto le formalità per l’imbarco, si recò nella gigantesca sala d’aspetto. Alle ore undici e trenta il suo volo fu chiamato, e dopo essere passato al controllo Passaporti, salì su un pullman che era in attesa. Quando arrivò sotto l’aereo, rimase sbalordito. Era immenso, con le lunghe ali su cui spiccavano gli enormi motori a elica, il possente carello con i pneumatici più grossi di quelli delle trattrici che si cominciavano a vedere alle cave di Carrara, e la coda, con il timone alto quasi come la “tecchia” (facciata) della cava di Fantiscritti. Gli pareva impossibile che quella cosa gigantesca potesse volare. Era un DC.7 come si leggeva sulla fusoliera argentea, sotto il nome Pan America scritto in rosse lettere cubitali. In cima alla scaletta altissima, appoggiata alla porta di prora, vi era una graziosa signorina, che un’elegante divisa celeste rendeva ancora più bella, le chiese qualcosa in inglese che lui non capì, poi in uno stentato italiano le disse di mostrargli il biglietto, quindi lo guidò al suo posto, dove gli insegnò come legarsi con la cintura di sicurezza. Quando i motori si accesero, e l’aereo impercettibilmente cominciò a vibrare, il suo cuore iniziò a battere all’impazzata, e un milione di farfalle cominciarono a svolazzargli nello stomaco, poi l’aereo lentamente si mosse. Era seduto proprio accanto al finestrino e vedeva sfilare il paesaggio dell’Aeroporto, per l’angoscia gli pareva che una gelida mano gli stesse straziando le viscere. Lentamente l’aeromobile percorse una pista deserta, lui era perplesso, possibile che un aereo camminasse così lentamente? A un certo punto l’aereo si fermò, e dopo un minuto senti l’urlo dei motori che salivano di giri, poi dopo un leggero tremore, il gigantesco velivolo scattò in avanti come lanciato da una fionda, e lui si trovò schiacciato contro il sedile, ma non ebbe neppure il tempo di avere paura, che vide sotto di se, sempre più piccola la citta di Roma allontanarsi. Ormai era in volo da ore e, dopo la nausea iniziale, sentiva un brontolio allo stomaco che gli ricordava che dalla mattina non aveva mangiato nulla, proprio in quel momento una hostess, con un sorriso, gli porse un vassoio con del cibo, lui non sapeva che era compreso, e dalla paura di dover pagare qualcosa, rifiutò con garbo. A un certo punto l’aereo cominciò a sobbalzare come un cavallo imbizzarrito, dopo poco si accese una scritta in rosso in inglese, e una voce maschile annunciò qualcosa che lui ovviamente non capì, solo quando lo stesso annuncio fu ripetuto in un impossibile italiano, capì. Il Comandante annunciava che causa tempesta di neve, il volo avrebbe fatto uno scalo intermedio, per poi ripartire quando le condizioni meteo sarebbero migliorate. Atterrarono in uno sperduto aeroporto, in mezzo al nulla, tanto che non li fecero neppure scendere, vi rimasero per un tempo che a lui parve infinito, tanto che si addormentò. Arrivò in una gelida e innevata Chicago in piena notte, con cinque ore di ritardo, ovviamente ad attenderlo non vi era nessuno, ma alla Dogana un funzionario gli comunicò che all’indomani sarebbero venuti a prenderlo. Infreddolito e affamato, uscì dall’Aeroporto per cercare un posto dove poter mangiare qualcosa. A poche centinaia di metri di distanza, spiccava come un faro, in mezzo a quel bianco e gelido deserto, un’insegna ancora accesa che pareva quella di un bar. Dentro c’era un bel calduccio che lo rinfrancò, non vi erano avventori escluso un gigantesco negro, vestito con quella che pareva una strana tuta da lavoro tutta spiegazzata. Stava seduto a un tavolo da solo sorseggiando qualcosa da una tazza enorme, un povero disgraziato, pensò Marcello. Il barista gli chiese qualcosa che lui non capì. Gli rispose mimando il gesto di mangiare un panino. “sandwich” sentì dire “si dice sandwich” disse il negro. Anche se l’accento era terribile, il suo italiano era comprensibile. Marcello dopo averlo ringraziato, chiese se poteva sedersi al suo tavolo, e quando il barman gli portò il panino con una birra, chiese che quello che stava bevendo l’uomo fosse messo sul suo conto. Dopo un’ora erano amici per la pelle, e Marcello, da buon carrarino, oltre ad avergli pagato un altro caffè, gli aveva raccontato per filo, e per segno, il motivo del suo viaggio. Poi, preso da un impeto di generosità, gli disse che se fosse venuto in Italia avrebbe potuto aiutarlo, assegnandogli un posto di lavoro nel suo laboratorio. L’uomo di colore lo ringraziò calorosamente, dicendogli che ci avrebbe pensato, poi gli disse che in Aeroporto vi erano sale d’aspetto riscaldate, dove avrebbe potuto attendere il mattino. Passò una notte da incubo, in una sala d’aspetto semideserta, con il timore che se si fosse addormentato, l’avrebbero derubato dei suoi scarsi averi, o peggio, non l’avrebbero riconosciuto per prenderlo. La mattina dopo una macchina grande come una nave, lo prelevò, portandolo in un lussuoso ufficio, dove rapidamente firmò il contratto, in tempo per prendere il volo delle undici. Si trovava in volo da un paio d’ore, e sfinito si era addormentato, quando fu svegliato da una hostess che gli porse un vassoio con sopra una coppa di champagne. “Io non ho ordinato nulla” esclamò Marcello spaventato dalla possibilità di dover mettere mano al suo esiguo portafoglio.“ Offre il Comandante” rispose in italiano perfetto l’hostess. Dopo pochi secondi il gigantesco negro che aveva visto a Chicago, si materializzò davanti ai suoi occhi, ma questa volta vestiva la divisa di Comandante, “come vedi, io un lavoro c’è l’ho già, ma ti ringrazio per la tua generosità, e ti auguro tanta fortuna” disse con uno smagliante sorriso. Incredulo e stupito Marcello si chiese, se il Comandante era davanti a lui, chi guidava l’aereo?          
CONTINUA
Quando fu di ritorno a Carrara, Marcello giurò a se stesso che mai più nella vita avrebbe fatto un viaggio in simili ristrettezze economiche, ma soprattutto, ripensando al Comandante, una così magra figura. Capendo che tutto era scaturito dalla sua non conoscenza dell’inglese, la prima cosa che fece fu quella di iscriversi a una delle prime Berlitz School, che aveva aperto a Massa, per insegnare la lingua inglese ai manager del nascente polo industriale di Massa- Avenza. Poi riversò tutte le proprie energie, nei contatti tra le poche cave che producevano il tipo di marmo, scelto dalla Società americana. Qui fu fondamentale l’aiuto di Norbè nelle trattative, per spuntare il prezzo più basso, ingolosendo i proprietari con la promessa di un contratto che comprendesse il ritiro di tutta la loro produzione, buona e cattiva, fino a coprire l’intera commessa. I blocchi che uscivano dalla cava, dovevano essere tagliati in lastre, e Marcello prese contatto con la Ferrovia Marmifera per il trasporto, e con due segherie carrarine che gli assicurano di riservare solo per lui due telai, per la produzione continua. L’Agenzia di Spedizione Navale marinella assicurò che il “barco” (piroscafo) per imbarcare il marmo, sarebbe giunto a Marina di Carrara, una volta il mese, e che in quel lasso di tempo, il tonnellaggio concordato doveva già essere in banchina, incassato, e pronto per il carico, in caso contrario, oltre a perdere il viaggio, ci sarebbe stato da pagare anche una forte penale. Facendo qualche calcolo Norbè si accorse, che anche facendo, gli “straù” (straordinari) non era possibile arrivare a lavorare l’enorme quantitativo di marmo necessario per il carico, quindi come fare? E qui Marcello dimostrò la sua capacità imprenditoriale. Assunse quattro persone, e suddivise il lavoro in due turni, 6 14-14 22, In questo modo, non solo sfruttava al massimo le macchine, ma raddoppiava la produzione. Dopo appena due mesi dall’ordine, la prima nave carica di marmo “carrarino” salpava verso l’America, c’è l’aveva fatta! Inutile dire, che, come promesso, nella busta paga dei primi quattro dipendenti, vi era un bel “cinquemila” lire di gratifica, quasi un altro stipendio per quei tempi, oltre naturalmente una suntuosa cena dalla Marì. Marcello non si scordò naturalmente di Norbè, avendo avuto quest’ultimo un ruolo fondamentale in tutta la vicenda, così fu promosso definitivamente a capo operaio, con il compito di dirigere i due turni di lavoro, con un sostanzioso aumento di stipendio. Intanto alla scuola d’inglese, Marcello progrediva sensibilmente mese, dopo mese, scoprendosi una predisposizione per le lingue che non sapeva di avere. La “professoressa” era una bella ragazza di qualche anno più vecchia di lui, che gli faceva una corte serrata. La carne è debole, e Marcello cedette alle avances della “fanciulla,” ma la cosa durò solo pochi mesi, e sinceramente neanche lui ne capì il capito il motivo, solo che un bel giorno decise di troncare. Ripresosi in mano la sua vita, si rituffò nel lavoro, cercando di modernizzare la sua attività, dotando l’azienda di quei nuovi strumenti che lo potevano aiutare nel lavoro. Il titolare della Ditta di trasporti che gli portava il marmo al Porto, lo convinse ad accompagnarlo alla base Americana di Camp Darby, tra Pisa e Livorno, dove si svolgeva un’asta di mezzi militari dismessi. Il suo amico comprò il suo terzo “tre assi White, ” mentre lui con poche migliaia di lire si accaparrò una fantastica Jeep seminuova, completa di capotte, che gli permise di mettere in pensione la decrepita Lambretta, ma soprattutto di arrivare agevolmente sui piazzali delle cave. In più, volle esagerare, e dopo appena due mesi dalla sua richiesta la TETI, gli installò un monumentale telefono in bachelite nera, che faceva bella mostra di se sulla scrivania del piccolo ufficio. Inutile dire a chi fece la prima telefonata di “prova.” Con una scusa chiamò Patrizia a Firenze, e a sentire la sua voce argentina, il suo cuore cominciò a battere all’impazzata come gli successe sull’aereo al momento del decollo. I mesi passavano veloci, ma lui totalmente preso dal lavoro, quasi non se ne accorgeva. Una splendida mattinata di marzo del 1954, una vicina di casa lo venne a chiamare allo studio, sua madre si era sentita male, e “l’assistenza” (ambulanza) l’aveva portata all’ospedale di Carrara. La corsa a rotta di collo con la Jeep sul viale XX Settembre, non servì a nulla, quando giunse all’ospedale, sua madre era morta. Ormai solo al mondo, si buttò ancor più sul lavoro, che almeno serviva a non farlo pensare, ma non passò troppo tempo  che, il dolore per la perdita della madre, divenne così pesante, che sentì il desiderio di condividerlo con una persona amica. Così chiamò al telefono Patrizia, e gli raccontò la triste nuova. Lei si disse molto addolorata per il suo grave lutto, e dopo avergli fatto le sue più sincere condoglianze, gli disse che stava proprio per chiamarlo, perché aveva urgente bisogno di parlagli, e chiese se poteva venire a Carrara la settimana dopo. Lui acconsentì di buon grado, assicurandole che sarebbe venuto a prenderla alla Stazione di Avenza, e che avrebbe prenotato una camera nel miglior Hotel di Carrara. L’attesa del giorno fatidico a Marcello, parve non avere mai fine, oltretutto facendo finta di non sentire, le salaci ma bonarie battute di Norbè, che da sempre gli diceva ”te d lelì t sen cot|!” (tu di quella lì sei cotto!) Il lunedì dopo andò alla Stazione quasi un’ora prima dell’arrivo del treno, e prenotò il taxi, una comoda Balilla nera e verde, la più lussuosa tra quelli in attesa, concordando che sarebbe rimasta a disposizione della signorina, per tutto il suo soggiorno. Quando scese dal treno, Patrizia parve a Marcello ancora più bella, vestiva un’elegante tailleur da viaggio, di colore grigio cenere, con una giacca color crema con il bordo del colletto foderato di morbida pelliccia. Un grazioso capellino racchiudeva e fermava a crocchia i biondi capelli, un paio di lunghi guanti di pelle chiara completavano l’abbigliamento. Portava una piccola valigia di pelle, che Marcello si affrettò a prendere, segno che aveva deciso di restare qualche giorno, questo lo rendeva ancora più felice. Che Norbè avesse come sempre ragione? Dopo essersi calorosamente salutati, salirono sul taxi che li portò in Hotel, dove Marcello disse che sarebbe passato a prenderla più tardi per il pranzo. Ovviamente pranzarono dalla Marì, che riconoscendo Patrizia, li accolse come due principi. Durante il pranzo la giovane gli comunicò che il suo Studio di Architettura, aveva avuto l’incarico di realizzare in marmo di Carrara, lussuose stanze da bagno, e rivestire e pavimentare, sempre con marmi pregiati grandi saloni, all’interno di tre faraoniche ville di attori famosi a Hollywood, e che per capirne la fattibilità necessitava la sua consulenza in loco. Dopo meno di due mesi partirono verso gli Stati Uniti, dove Marcello, finalmente padrone della lingua, poté stupire Patrizia, sfoggiando un inglese non perfetto ma capibile. Il loro soggiorno in America durò quasi un mese, tempo esagerato per svolgere quel tipo di lavoro, ma appena sufficiente per … innamorarsi. Quando tornarono in Italia, Marcello oltre ad avere importanti commesse per la fornitura di marmo pregiato come Calacata macchia Oro, e Venatino, possedeva anche una fidanzata. Il padre di Patrizia non prese bene la decisione della figlia di staccarsi da lui per vivere a Carrara, ma alla fine capì che la sua felicità veniva prima di tutto. Si sposarono un anno dopo, con testimone di nozze Norbè per Marcello, e un noto Notaio fiorentino per Patrizia. Andarono ad abitare in affitto in un nuovo condominio appena costruito a Marina di Carrara, che al tempo sorgevano come funghi. Durante il boom economico degli anni sessanta, si costruirono una deliziosa villetta lungo il viale XX Settembre, circondata da un magnifico, e rigoglioso giardino, e ampliarono e modernizzarono tecnologicamente il laboratorio. Ebbero due figli maschi, di cui uno seguì l’esempio della madre diventando architetto, mentre l’altro, dopo il diploma, preferì la vita nel laboratorio, dove, Norbè gli insegnò tutto quello che sapeva, fino alla sua pensione, avvenuta nel 1988. Marcello e Patrizia, dopo più di sessantasei anni vissuti insieme, spesso ripensano con un sorriso, che gran parte degli avvenimenti più importanti della loro vita, tra cui l’agiatezza economica, siano da imputare alla paura di un mulo … per un tuono.
FINE
Racconti di questa rubrica
CarraraOnline.com
CarraraOnline.com
Torna ai contenuti