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Sezione a cura di Mario Volpi
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Emigrante carrarino

Una Volta Invece

Spetta/Le Redazione
1 sett 2013

L’immigrazione selvaggia continua senza sosta, e senza regole, questo è deleterio sia per i migranti, sia per l’Italia, che non dovrebbe essere lasciata sola dagli altri Paesi Europei come fecero in un giugno ormai lontano.
Il 23 giugno 1946, il Governo Italiano e quello Belga firmarono un accordo che oggi sarebbe considerato scellerato, e forse lo fu davvero. In pratica l’Italia si impegnava a inviare nelle miniere di carbone belghe, 50.000 operai, in cambio della vendita a prezzi di favore di 2.500 tonnellate di carbone ogni 1.000 uomini. Anche da Carrara, semidistrutta dai bombardamenti, in piena crisi economica con le cave ferme, con la carestia alimentare per via delle campagne inutilizzabili a causa dalle mine, circa 900 padri di famiglia partirono, ma pochissimi fecero ritorno. Per fortuna la mia famiglia scelse il Brasile per emigrare, purtroppo con scarsa fortuna. Del soggiorno in Brasile ho solo frammenti di ricordi, perché molto piccolo, ma dell’umiliante e doloroso viaggio di ritorno, come passeggero di serie”Z” il ricordo è rimasto ben vivo, anche se per molto tempo rimosso. Ma è bastata una parola....

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Ricordi di un emigrante carrarino

Il cervello umano è certamente uno degli organi più misteriosi e affascinanti della nostra specie, che soltanto ora, con i moderni sistemi di indagine, svela piccolissimi segreti del suo funzionamento. Gli scienziati hanno scoperto che specialmente in giovane età, vi sono ricordi, a volte solo un oggetto, una parola, o un odore, che si fissano in modo indelebile nella memoria, e a distanza di decenni, a prescindere dalla volontà del soggetto, ritornano prepotentemente a galla, stimolati da una situazione simile a quella che li ha generati. Questo fenomeno viene chiamato “memoria episodica a lungo termine”. Con mia grande sorpresa, e con non poca emozione, e successo anche a me pochi giorni fa.
Negli anni cinquanta, sono stato uno delle migliaia di Italiani che emigrarono in cerca di fortuna, la maggior parte verso i paesi Europei e l’America, alcuni verso l’Argentina, io con la mia famiglia verso il Brasile.
Del viaggio di andata mi ricordo pochissimo, perché ero molto piccolo, ma di quello di ritorno dopo circa due anni, i ricordi sono molto più vividi, come ad esempio il pianto di mia madre che sapeva di tornare a Carrara più povera di quando era partita, o la preoccupazione di mio padre che doveva ricominciare tutto da capo, senza avere neppure la certezza di trovare un nuovo lavoro. Ovviamente queste considerazioni le ho fatte molto più tardi, perché al momento, con la spensieratezza tipica dei bambini, pensavo solo a giocare con le decine di amichetti che mi ero fatto a bordo.
Il transatlantico si chiamava Conte Grande ed era veramente immenso, assieme al gemello Conte Biancamano, era l’orgoglio della Compagnia di Navigazione Italia. Era verniciato interamente di bianco, escluso lo scafo e la parte terminale delle due gigantesche ciminiere, che erano di colore nero. Aveva molti ponti, con lunghissimi corridoi su cui si affacciavano infinite file di cabine, sul ponte superiore esterno, dove erano sistemate le scialuppe di salvataggio, aveva perfino una piscina, ma devo dire che questo lusso era riservato alla prima e seconda classe. Noi purtroppo si viaggiava in terza, dove per alloggi vi erano i “cameroni.”Queste erano cabine a dodici posti senza oblò, dove gli uomini dormivano separati dalle donne, che dormivano in altre simili con i bambini piccoli, tutte avevano  i servizi igienici in comune nel corridoio. I pasti erano serviti su tre turni, in una immensa sala situata “sot’acqua” come diceva mia madre in dialetto che era tormentata dal mal di mare, e che attraverso un piccolo oblò vedeva apparire e sparire il mare per effetto del beccheggio. Il cibo era dozzinale, ma abbondante, molti passeggeri, tra cui i miei genitori avevano avuto delle difficoltà nei primi giorni di navigazione, un pò per disturbi dovuti al mal di mare, ma sopratutto perché non abituati ai primissimi self service. Un giorno giocando a nascondino con alcuni bambini, aprii una porta in legno, e mi trovai di colpo in un altro mondo. Un corridoio coperto da un tappeto rosso, portava in una grande sala arredata come le regge dei Principi che vedevo illustrate nei miei libri di favole. Le pareti erano piene di quadri, e stucchi dorati, pesanti tendaggi di un broccato color crema, erano tenuti aperti sulle ampie vetrate, da cordoni con le estremità a frange d’oro. Tavoli rotondi, con le gambe arcuate, erano ricoperti da candide tovaglie e riccamente apparecchiati, con piatti dai bordi dorati, e posate scintillanti, un candelabro con delle candele accese su ogni tavolo, colorava di caldi riflessi il cristallo dei bicchieri, le sedie imbottite, avevano gli schienali altissimi. Al centro di ogni tavolo un prezioso vaso di cristallo conteneva dei fiori freschi multicolori, cosa non facile da vedere su una nave in navigazione da quindici giorni. Rimasi senza fiato, come paralizzato, io che venivo da un mondo dove era dominante il bianco asettico della vernice, tanto sfarzo e colore mi trasformarono in una statua di sale con la bocca semiaperta dallo stupore. Mi ci vollero alcuni minuti per mettere a fuoco l’imponente figura che mi si era parata davanti. Era un signore con una divisa bianca immacolata, piena di bottoni dorati, e nastrini colorati, pensai che fosse il Comandante, e temendo una punizione, scoppiai a piangere. Lui mi prese in braccio e ridendo tentò di consolarmi, poi mi portò in una gigantesca cucina scintillante dove, da delle enormi pentole usciva vapore insieme a un delizioso profumo di cibo, mi sedette su di uno sgabello, e in una lingua che solo più tardi scoprì essere napoletano, ordinò qualcosa a un’altro uomo vestito di bianco, con in testa un buffo cappello. Questi dopo un secondo, mi portò un enorme bicchiere pieno di gelato, con una fragola sulla sommità. “Stattene qui bono, bono, e mangia u gelato, che mo non poi nescire” mi disse sorridendo l’uomo di prima, prima di uscire velocemente.  Io un gelato così non pensavo neppure che esistesse, e cominciai a mangiare avidamente, aveva un gusto che non avevo mai sentito. Da una mezza porta, simile a quella che si vedevano nei film di cow boy, potevo vedere quello che accadeva nel salone da pranzo. Uomini e donne ben vestiti entravano alla spicciolata, e si sedevano ai tavoli, non prima che uno dei tanti camerieri spostasse la sedia per fare accomodare le signore, poi porgevano loro una specie di libro con la foderina di cuoio rosso. Di colpo, quasi magicamente, nella sala si udii una musica. Una tenda leggera come un velo, nascondeva una specie di nicchia, da dove una orchestrina suonava sommessamente. Camerieri in guanti bianchi, pareva volassero per la leggerezza con cui si aggiravano tra i tavoli, servendo pietanze con gesti sicuri da vassoi e guantiere d’argento, mentre un uomo passava di tavolo in tavolo, spiegando ai commensali di cosa erano composte le vivande, e versando vino nei preziosi calici con gesti eleganti. Il Maitre,(solo più tardi seppi che si chiamava così) era colui che mi aveva trovato, si chiamava Esposito, era di Napoli, e mi prese a benvolere perché come ebbe a dire più tardi “gli ricordavo i figli suoi.” Volle conoscere anche i miei genitori, e quando in sua presenza raccontai ai miei, come mi aveva trattato, e di come servisse il vino ai tavoli, con una risata mostrò il nastrino tricolore sulla giacca e disse ”italian style!” Da allora sono passati quasi sessanta’anni, e non ricordavo più neppure l’avvenimento. L’altra sera era il mio anniversario di nozze e decisi di uscire a cena con mia moglie, ma come facciamo spesso, così, senza meta, come diciamo noi, “all’avventura,” per essere liberi di fermarci dove ci pare. Visitammo romanticamente i luoghi che ci avevano visti fidanzati, e quando decidemmo di andare al ristorante, ci accorgemmo che era già un’ora tarda. Ci trovavamo verso Lerici, e vedemmo l’insegna luminosa di un ristorante. Continuando a chiacchierare tra noi entrammo distrattamente, e ci sedemmo al tavolo che un giovanissimo cameriere ci indicava, vi erano solo altre due coppie che avevano quasi finito il pasto. La tavola era apparecchiata con ricercatezza, cosa che li per lì non notai, poi improvvisamente si levò una musica in sottofondo, mentre un cameriere più anziano si avvicinò a una coppia, versò del vino, con mosse eleganti, e rispondendo a l’uomo esclamò ridendo “italian style!” Fu come se un velo si squarciasse nella mia testa, e improvvisamente ricordai. Mi rividi su quella nave, notai la stessa classe dei camerieri di allora, e quella musica mi fece rivivere la stessa atmosfera, la mia sorpresa fu talmente evidente che il padrone del locale venne premurosamente a dire se ci fosse qualcosa che non andasse. Io risposi di no, anzi lo ringraziai di avermi ridato un pezzo della mia vita, lui mi guardò in modo strano, evidentemente non capiva, ma con italian style fece finta di nulla.


Volpi Mario

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