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Sezione a cura di Mario Volpi
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Il mio carnevale

Racconti

'l me carn'val

Nella Società italiana, dopo il Natale e la Pasqua, la festività certamente più sentita è il Carnevale.
Anche se non ha una data ben definita, che ne determini l'inizio e la fine, in questi ultimi decenni questa festività è diventata sempre più importante e consumistica. Alcune città come Viareggio, Cento, Venezia, basano sul Carnevale una fetta importante dei loro bilanci, riuscendo a far muovere milioni di Euro con il turismo a esso collegato. Questa festa-non-festa, che è celebrata per tutto il mese di febbraio, ha il suo culmine nei tre giorni denominati, giovedì, domenica, e martedì grassi, prima dell'avvento della Quaresima, ormai sconosciuta ai più, e rispettata da pochissime persone. Ogni domenica del mese di febbraio, specialmente se splende il sole, in ogni città italiana è facilissimo vedere i luoghi cosiddetti dello "struscio" affollati da genitori che accompagnano bambini piccolissimi, perfettamente mascherati con costumi stupendi, anche molto elaborati, che ricordano i nuovi personaggi dei cartoni animati, o i super eroi, per non parlare poi dei classici e intramontabili Zorro, Biancaneve o la fata Turchina.
Io, nei miei ricordi di bambino, ho una data ben viva nella memoria, il 1953, questo non perché in quella data fosse accaduto qualcosa di particolarmente bello o brutto, ma semplicemente perché è stato il mio primo anno di scuola elementare, e la maestra ogni mattina scriveva il giorno, il mese, e l'anno, sulla lavagna, che noi dovevamo faticosamente ricopiare. Erano anni difficili, la miseria era imperante nella maggior parte delle famiglie, il tasso di emigrazione verso l'Australia, Canada, e America del Sud, era ripreso con vigore, com'era importante il flusso di emigrazione verso paesi Europei, come il Belgio, che tramite un accordo con lo Stato Italiano offriva lavoro nelle miniere di carbone, o Svizzera, e Francia. Erano ancora ben visibili le facciate delle case sbrecciate dalle schegge di bombe o di mitraglia, e in molte erano ancora presenti le scritte propagandistiche del ventennio Fascista. Nonostante questa situazione non certo rosea, il Carnevale era molto sentito, soprattutto dagli adulti e dai ragazzi più grandi.  Il giovedì grasso era tradizione legare al braccio del "padrone" come un tempo era chiamato il datore di lavoro, un nastro colorato, spesso ornato con una coccarda, comperato con il contributo di tutti i suoi sottoposti. Siccome l'Italia del tempo era prevalentemente agricola, era spesso il fattore a ricevere questo nastro che ricambiava alla sera con una cena in cascina, annaffiata da abbondanti bevute di "vin bon" (vino buono) al posto della solita vinella, o strizzo. La domenica grassa invece era dedicata al ballo. Erano tre i principali locali carrarini, dove si svolgevano questi "veglioni" che finivano immancabilmente a mezzanotte, uno era il mitico "Gelsè," una baracca di legno, colorata vivacemente che si trovava a metà strada dell'attuale via Piave, sulla sponda destra del Carrione, un altro era la "Moretta" a Carrara, e il terzo detto "Germinal" era situato nei sotterranei dell'attuale palazzo delle Poste di Carrara. Le ragazze vi si recavano con il tram, accompagnate dalle madri o dalle sorelle più grandi, spesso con al seguito il codazzo dei fratelli più piccoli. I ragazzi, con i capelli impomatati da quintali di brillantina, gli cercavano il ballo che era accettato non solo dalla ragazza, ma con un leggero assenso della testa, anche dalla madre o sorella.
Nelle edicole erano in vendita per i più piccoli, delle maschere piatte, che riproducevano facce d'indiani, streghe, o scimmie, provviste di due fori per gli occhi e un elastico, ma il loro costo "proibitivo" di ben 15£ ne sconsigliava l'acquisto. Noi ragazzini ripiegavamo sulle foderine nere dei quaderni scolastici, dove si ritagliava una maschera tipo Zorro che ci fissavamo dietro la testa con un elasticino. Anche le trombette di cartone coniche, con le stelle filanti sulla sommità, o quei fischietti di cartone che si allungavano e si ritiravano erano per noi un lusso, per non parlare di stelle filanti o coriandoli, mi rammento che un giorno a scuola mi regalarono un sacchettino di coriandoli, io per la paura di "consumarli" non ne lanciai neppure uno. Il giorno più importante del Carnevale era comunque il martedì grasso, dove i ragazzi e gli adulti si scatenavano in scherzi, a volte anche pesanti, spesso a spese del parroco, o del fattore, visti un po' come l'autorità costituita, e in travestimenti. Era prassi consolidata, visto la totale assenza di maschere carnevalesche, di mascherarsi gli uomini da donna, e le donne da uomo. Così si vedevano improbabili contadine, con seni e pance enormi fatte con il fieno, con in testa dei fazzoletti da dove spuntavano boccoli fatti con la stoppa per levare l'olio dal vino, mentre le ragazze intabarrate in abiti maschili di tre taglie più grandi, avevano barbe e baffi disegnati con il carbone. Così mascherati questi gruppi accompagnati dall'immancabile organetto, o mandolino, giravano per le cascine, facendo divertire adulti e bambini, guadagnando qualche uovo, o visto che da poco era stato macellato il maiale, qualche salsiccia, o pezzo di buristo, non mancavano le "chiacchere" fritte apposta per l'avvenimento, accompagnate spesso da un buon bicchiere di " bianch bon d Candia,"(bianco buono di Candia) il tutto ovviamente era consumato in comunione la sera, in qualche stalla o cascina compiacente.
Se da una parte, vista la loro tragicità, sono stati anni da dimenticare, hanno però avuto il merito di insegnare a quelli della mia generazione i veri valori della vita. Io penso che sia certamente più gratificante divedere un pezzo di pane, e mezza salsiccia, con un vero amico, che sfoggiare un costosissimo capo griffato, davanti magari, a mille sconosciuti, e questo tutt'ora, dopo altre mezzo secolo.

Volpi Mario

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