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Sezione a cura di Mario Volpi
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Come ci si “calava” negli anni sessanta

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
La voglia di trasgressione nei giovani è così forte da fargli coniare anche un dizionario con allocuzioni il cui significato risulta comprensibile solo a loro. Così con "calarsi" si intende ingoiare, quasi sempre una pasticca in Discoteca. Anche un tempo ci si "calava" anche se in modi diversi, forse perchè, la saggezza non rientra, e sopratutto non fa rima con, giovinezza
Come ci si “calava” negli anni sessanta
Nelle nuove generazioni, la voglia di trasgredire è fortissima, e per manifestarla non esitano a usare mezzi estremi, come assumere quantità eccessive di alcool, o fare uso di sostanze stupefacenti come quelle di sintesi di ultima generazione, che causano danni irreversibili ai neuroni celebrali.
I motivi sono molteplici, alcuni lo fanno per sentirsi accettati dal gruppo, altri nella speranza di ritagliarsi un ruolo di leader, moltissimi in una sorta di ribellione verso una Società che loro giudicano ostile, o antiquata, e che identificano in particolar modo nella generazione precedente, cioè quella dei loro genitori.
La conflittualità tra generazioni, non è certamente storia recente, io penso che sia esistita fin dalla venuta del primo uomo sulla terra, ma sono enormemente cambiati, questo sì, i modi di attuarla; complici le migliorate condizioni economiche e sociali della popolazione, e sopratutto la tecnologia.
Anche negli anni sessanta, i giovani cercavano di affrancarsi da una Società che sentivano non più rispondente alle loro ispirazioni, ma lo facevano con mezzi molto più soft, e questo non perché a quei tempi fossero dotati di più autocontrollo, ma semplicemente per motivi di ordine economico e di tempo.
In quegli anni l’Italia conobbe un boom economico senza precedenti, trovare un posto di lavoro non era un problema, ed era diffusissimo l’apprendistato, di conseguenza la quasi totalità dei giovani lavorava, spesso, anche quelli che frequentavano le scuole superiori, durante le vacanze estive svolgevano una qualche attività lavorativa.
Molti si chiederanno allora, se la quasi totalità delle persone lavorava, come era possibile essere in difficoltà economiche? E’ presto detto; molti ragazzi svolgevano il lavoro di apprendisti gratis, o con paghe bassissime, questo era giustificato dal fatto che si doveva “imparare un mestiere.” La giornata di otto ore era un’eccezione, mentre quella da dieci e più era la norma, in più, al tempo, la settimana lavorativa era di sei giorni, la mezza giornata del sabato sarebbe venuta soltanto con i motti di protesta del “68”, va da se, che solamente la domenica era dedicata allo svago.
Svago che poi si traduceva in due opportunità, o cinema, o “balera”. E’ evidente che in tutte e due le opzioni necessitava avere danaro, che spessissimo, mancava, costringendoci così ad inventare modi diversi per divertirsi e soprattutto per trasgredire. Alcuni di questi, visti con gli occhi di oggi, stappano un sorriso, per la loro infantile ingenuità, ma che al tempo era un modo di disobbedire alle regole, che ci faceva sentire importanti. Quando si sceglieva il pomeriggio nella sala da ballo, (aprivano alle tre e di solito chiudevano alle 20), il massimo della trasgressione era di “migrare” in paesetti magari sperduti, dove noi figli della città, ci sentivamo più importanti, facendo i bulli con le ragazze del posto, cosa che scatenava le ire dei ragazzi residenti, che ci costringeva spesso a veloci fughe se il loro numero era molto superiore al nostro, o a qualche scaramuccia a suon di schiaffi e spintoni, se il numero era quasi identico. Le serate si passavano al bar, giocando alle carte o al biliardo, spesso però, visto la cronica penuria di denari, ci si divertiva a fare indispettire le “signorine,” che al tempo erano in numero molto limitato, e tutte italiane, che lavoravano sull’Aurelia. Oppure si andava a rubare la frutta, o la verdura, nell’orto del vicino giudicato più “cattivo, ”qualcuno esagerava andando a rubare i polli al curato per poi invitarlo a cena qualche giorno dopo, proprio come nei film del grande Totò.
Questo avveniva in inverno, perché nelle serate estive tutto cambiava, prima di tutto era quasi naturale trasgredire su l’ora del rientro, spessissimo si rientrava oltre la mezzanotte, al tempo un orario da gioventù bruciata. Si cercava di “rimorchiare” qualche straniera nei camping della Partaccia, oppure e qui la trasgressione raggiungeva il suo apice, fare il bagno in mare completamente nudi.
Quando poi qualcuno riusciva a comperarsi una Vespa o una Lambretta, firmando chili di cambiali, il massimo della trasgressione era il “truccarla.” Si costruivano così delle pericolosissime trappole che correvano oltre i 130 Km l’ora, non avendo però i requisiti per farlo, come freni, telaio, gomme ecc, qualcuno era talmente gasato da sfidare la Polizia Stradale, in inseguimenti, che spesso portava il temerario, in Tribunale, o al Pronto Soccorso.
Anche compiere azione pericolose, prive di senso, era considerato da “ganzi;” a tal proposito voglio raccontare cosa è successo a me ed a un gruppo di amici.
Era una calda serata estiva, un forte vento di libeccio aveva alzato il mare che ruggiva minaccioso, grosse onde crestate di spuma esplodevano contro la diga foranea, sparando verso il cielo, bianche fontane di spuma. Il vento fischiava fortissimo tra il sartiame delle barche in porto, che nel pomeriggio avevano rinforzato gli ormeggi. Pesanti nuvoloni neri oscuravano a tratti le stelle, rendendo il molo, simile ad un’esile linea di cemento che si perdeva in un mare d’inchiostro ribollente.
Io con altri cinque amici eravamo venuti a Marina in tre su ogni vespa, ma la serata languiva, per le strade pochissima gente, non sapevamo cosa fare.
Ad un tratto a uno di noi, non ricordo neppure chi fosse, disse “perché non andiamo a sfidare il mare?” L’idea, stupida e pericolosa, ebbe subito successo, così ci dirigemmo con incredibile leggerezza verso la diga foranea, che dal faro si protendeva nel buio, verso il mare in tempesta.
Da principio la cosa fu molto divertente, insultavamo il mare sfidandolo a bagnarci, sfuggendo agli schizzi ora a destra ora a sinistra. Un gioco cretino che per poco non si trasformò in tragedia. Al tempo la diga era molto più bassa di adesso, e anche parecchio più corta, il fanale rosso era quasi all’altezza di quello verde sul lato opposto, mentre l’interno della diga era delimitato da grossi scogli coperti di mitili, taglienti come rasoi.
A me, di colpo, si ruppe uno zoccolo, e mentre mi chinavo per cercare di ripararlo, i miei amici continuarono a camminare, fu un attimo. All’improvviso, fui sommerso da una valanga d’acqua salmastra, mi sentii quasi sollevare, mentre un fragore simile ad un’esplosione mi frastornò completamente. Un’ondata gigantesca aveva completamente sommerso il molo, quando sputando acqua salata, alzai gli occhi, vidi con terrore che il molo era completamente deserto, dei miei amici non vi era traccia. Cominciai urlando a chiamarli, e poco dopo udì in risposta un flebile lamento, uno di loro emerse coperto da un milione di tagli dal buio degli scogli. Poco più in la un’altro stava lottando con le onde per riguadagnare la scogliera, l’ondata lo aveva sbalzato in mare dalla parte opposta. Alla fine, perdendo sangue come tonni scannati, per i tagli provocati dall’urto contro le colonie di mitili, riemersero tutti meno uno. Quando ormai ci eravamo rassegnati al peggio, sentimmo la sua voce che ci chiamava dalla parte opposta del porto, aveva fatto la traversata a nuoto. Così fradici e impauriti tornammo a casa, e per settimane non dicemmo nulla a nessuno, per la paura di ritorsione da parte dei genitori, ma soprattutto per la vergogna di aver fatto, noi “esperti marinai” una così ingloriosa figura.
Non si riesce a capire il perché nei giovani, vi è questo forte desiderio di autodistruzione, forse perché si sentono invincibili, o forse perché, non si rendono conto di quando fragile e preziosa, sia la vita umana.

Mario Volpi
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