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Sezione a cura di Mario Volpi
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Un salto nel passato

Una Volta Invece

Spetta/Le Redazione
1 DIC 2013

Il balzo tecnologico, e sociale che ha fatto la Società italiana dal primo dopoguerra a oggi, è stato così rapido da non avere avuto neppure il tempo di lasciare una testimonianza storica. Un esempio per tutti, sono pochissime le abitazioni del tempo rimaste integre, come sono ridotti a cimeli da collezionisti gli oggetti di uso quotidiano del tempo. Tutto è affidato al ricordo, ormai sempre più sbiadito di chi, come m,e quegli anni li ha vissuti, e credetemi, spesso mi sento come se fossi un viaggiatore del tempo.

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Un salto nel passato

Alcuni giorni fa mi trovavo in una terza media, per aiutare gli alunni che volevano preparare alcune poesie Natalizie in dialetto. Era una brutta mattinata, pioveva a dirotto, e cosi, ridendo, dissi che quando io ero bambino, molte persone, durante i forti temporali, erano costrette a cospargere la casa di pentole e tegamini, per raccogliere le gocce che filtravano dal soffitto. Vidi subito l’incredulità dipinta sui volti dei ragazzi, allora dissi se volessero fare un esperimento.
Questa mattina, dissi, tenterò di riportarvi indietro nel tempo, non di secoli o millenni, ma solamente di pochi decenni, chiudete gli occhi, è quando li riaprirete immaginatevi di essere nel 1950.
Per prima cosa spegnete tutti gli elettrodomestici di casa, oltre naturalmente a cellulari, stereo, Tv, e computer, chiudete anche il gas, l’acqua corrente, e i termosifoni, e buttate via le chiavi dell’auto, ecco!... Ora siete molto vicini a come vivevano gli Italiani in quegli anni.
Guardiamo dove la gente abitava; le case del tempo erano profondamente diverse da quelle attuali, naturalmente parlo delle case della gente comune, non certamente delle residenze principesche che esistevano anche al tempo. La casa tipica aveva le mura in pietra di largo spessore, il tetto era costituito da una grossa trave centrale, quasi sempre di castagno, rozzamente squadrato, su cui appoggiavano altri travicelli, del medesimo legno, con listelli posizionati longitudinalmente ad essi, su cui erano semplicemente appoggiate le tegole, in alcuni casi, per rendere la parte interna del tetto, meno soggetta a spifferi d’aria, e più piacevole alla vista, si ricorreva a “l’incannicciata.” Questa consisteva in normali canne di fiume, tagliate in senso longitudinale e essiccate, quindi si intrecciavano fra di loro e si inchiodavano sul lato interno di travicelli, detti “costane” posizionati da parete a parete in senso orizzontale, sopra questa effimera base, veniva applicata uno strato di malta.
Va da se, che un tetto costruito in questo modo fosse molto soggetto ad infiltrazioni d’acqua durante le forti piogge, bastava infatti che il vento muovesse una tegola, o che un listello si incurvasse, perché l’acqua gocciolasse all’interno, caso tutt’altro che raro, a cui si ovviava con rassegnazione, posizionando un pentolino a raccogliere le gocce.
Guardiamo ora il riscaldamento. “Il riscaldamento centralizzato” era solitamente costituito da un camino, mentre per cuocere il cibo si usava, il fornello una specie di braciere a due fuochi in muratura, dove si posizionava la carbonella, oppure la più moderna “stufa economica”. Questo aggeggio era una specie di mobiletto in metallo smaltato, e nel suo genere era un piccolo capolavoro di ingegneria domestica. Sul lato sinistro era posizionato il “braciere” ovvero il luogo deputato alla combustione della legna, una griglia in ghisa permetteva alla cenere di scendere in un cassetto al di sotto, la fiamma poteva, a scelta della massaia, essere usata dal vivo, tramite la semplice rimozione di cerchi di ghisa, o a contatto, poggiando la pentola sopra di essi, ma le sue funzioni non finivano qui, infatti sul lato destro vi era una caldaia per la produzione continua di acqua calda, mentre nella parte sottostante vi era un forno per la cottura di torte e arrosti. Anche il tubo di ferro che raccordava la stufa alla cappa del camino era sfruttato. Attorno al tubo infatti, veniva fissato con delle viti un collare con delle stecche di ferro che si potevano aprire, l’ideale per stendervi i panni nelle fredde e piovose giornate invernali. Solo attorno ai primi anni sessanta, si cominciarono a vedere i primi fornelli a gas GPL, erogato da una bombola piazzata sotto il lavello. Le camere da letto quasi sempre posizionate nel secondo piano della casa, rimanevano gelide, tanto che andare sotto le coltri era per noi ragazzi, anche se interamente vestiti da pigiami in lana, una vera tortura, perché le lenzuola da tanto che erano gelide sembravano bagnate. Per ovviare a questo inconveniente e riscaldare il letto era usato “il prete.” Questo aggeggio era costruito con leggere stecche di legno incurvate, e poteva avere due forme, a cupola, o a dondolo. Tutte e due le versioni però necessitavano di uno “scaldino”,un piccolo recipiente di lamiera zincata, o di terracotta, ripieno di carbonella accesa attaccato a l’apposito gancio, poi si mettere il tutto sotto le coltri.
L’acqua potabile era tenuta dentro un bacile di rame stagnato, con un mestolo che tutti usavano portandolo alla bocca, e ributtando nel recipiente l’acqua non bevuta, non si poteva di certo sprecarla, visto che si doveva andare a prenderla in piazza, alla fonte pubblica. Se poi avevate bisogno del gabinetto, bastava andare nel cortile, dove in un casotto, era posizionato una specie di grosso scalino rialzato, di solito in marmo, con al centro un foro chiuso da un tappo rotondo in legno o in marmo, con un manico metallico, si spostava, ci si accomodava alla “turca” e si espletava il bisogno corporale. Dimenticavo di dirvi di portare un pezzo di carta gialla, visto che il luogo ne sarà certamente sprovvisto, e la carta igienica era di la da venire, con tanti saluti alle norme igieniche. Il “luogo comodo” come veniva chiamato al tempo, era naturalmente in uso a tutto il vicinato. Lascio alla fantasia dei lettori come questo posto potesse essere accogliente, magari in una fredda notte piovosa, o in un afoso pomeriggio estivo. Per fare il bagno, la cosa era più complessa; si doveva prendere molta acqua alla fonte, scaldarla al camino, quindi dopo averla messa nel “concon”ci si poteva lavare, è chiaro che visto la difficoltà delle operazioni, questo lusso potesse essere goduto solo ogni quindici giorni. Ma il capolavoro era sicuramente l’impianto elettrico. Questo era costruito con due tipologie di fili elettrici per portare la corrente nei diversi punti della casa: un tipo era la “piattina,” molto simile ad un comune nastrino, aveva i due fili, che poi erano anche le due fasi, posizionati in senso longitudinale, isolati e tenuti separati da circa quattro millimetri di similgomma. Era in questo spazio che venivano piantati i chiodini per tenere la piattina aderente alle travi o alle pareti, l’altro tipo invece, aveva la forma di una treccia dorata, rivestito di una specie di raso, era utilizzato per il “faccia a vista” o per i lampadari, ed era tenuto in sede tramite dei piccoli isolatori di ceramica, simili a piccolissimi birilli a loro volta inchiodati su travi e pareti. Gli interruttori, e le prese, di bachelite nera, erano enormi.  Il “salvavita”  era praticamente una piccolissima scatola di ceramica, chiamata comunemente “valvola” dove sul coperchio vi erano fissati con quattro viti, due pezzi di filo di piombo, che in caso di cortocircuito, fondevano staccando la corrente. Al tempo la tensione era di 110 V. e gli impianti, tutti esterni, erano facile preda dei roditori, ospiti comunissimi nelle case di allora, che spesso rosicchiavano la gomma di isolamento provocando dei corti. Per ovviare a questi inconvenienti, molti sostituivano il piombo con il rame ottenendo il risultato, che in caso di cortocircuito i fili si surriscaldassero fino a provocare dei disastrosi incendi.
I pavimenti erano quasi tutti fatti di comuni mattoni, che almeno una volta all’anno venivano “dipinti” con un apposito colore rosso, un discorso a parte invece meritano le pareti. Nelle serate estive, il soffitto delle case era letteralmente tappezzato di mosche, che ovviamente lo usavano anche come gabinetto, così ogni anno si doveva “imbiancare”.
Questa operazione veniva eseguita sciogliendo della calce viva, in un recipiente, quindi dopo averla filtrata per togliere impurità, mediante una specie di pompa a mano, veniva spruzzata su mura e soffitti. Ma non finiva qui, si aspettava che asciugasse, poi si scioglieva un poco di “terra di Siena” in acqua, e si dipingeva tutto attorno al pavimento, uno zoccoletto di circa venti centimetri di altezza, per evitare di avere le sbaffature che saranno in seguito causati da scopa e”struscino”, poi si cambiava colore, e usando delicatamente un rullo in gomma con motivi floreali in rilievo, si passava sulle pareti che venivano così  stampate.
Ma per fortuna il vostro è solamente un sogno, basta riaprire gli occhi per tornare nel nostro tempo, con le sue contraddizioni, ma con tantissime comodità, solo… La prima volta che magari vi arrabbiate perché il cellulare non ha campo, ricordatevi di come vivevano i vostri padri!


Volpi Mario

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