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Sezione a cura di Mario Volpi
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Artigiani del gusto

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
L'altro giorno, in occasione della festa di S.Valentino, mi trovavo in un ristorante, e mi è capitato di ascoltare l'ordinazione al cameriere, fatta da una giovanissima coppia al tavolo accanto. Al momento di scegliere il vino, il ragazzo, forse per impressionare la compagna disse di portargli " una bottiglia di vino di barriche". Il cameriere da vero professionista, non ha fatto una piega, al contrario di me, che sono esploso in una sonora risata. Questo spiega come in un Paese patria del vino come il nostro, non venga fatto nessun tipo di promozione per valorizzare i nostri prodotti, lasciando che solo le mode, magari anche distorte, facciano la differenza.
Artigiani del gusto
Alcuni giorni fa, un mio carissimo amico, mi stava raccontando, non senza un filo di rammarico e di commozione, le difficoltà che aveva trovato per sgomberare la cantina della sua vecchia casa, che, dopo la morte della madre, aveva bisogno di essere urgentemente restaurata. Vi erano contenute due botti da 10 quintali, e un grosso tino da fermentazione di castagno, che non erano stati più usati per vinificare da decenni, posti su grosse travature di legno, occupavano per intero la parete più lunga della cantina. Lui ricordava ancora, con nostalgia, le innumerevoli vendemmie in cui erano stati usati, ma soprattutto, i sacrifici finanziari che il padre aveva dovuto sostenere per il loro acquisto. Nonostante fosse disposto anche a regalarli, non si era presentato nessuno, così era stato costretto a smontarli e bruciarli. Negli anni sessanta, il costo di una botte di una certa capacità, equivaleva a quello odierno, per l’acquisto di un’autovettura, era perciò un sacrificio finanziario non trascurabile, ma si sapeva che, se ben tenuta, poteva durare oltre un secolo. In quegli anni era il legno, il materiale più usato per costruire una grande varietà di contenitori per gli usi più svariati, e il mestiere del bottaio, oltre ad essere molto comune, era considerato di grande prestigio. Si costruivano molte bigonce, che servivano non solo per contenere l’uva durante la vendemmia, ma anche per trasportare ghiaia, sassi, e vari tipi di granaglie. Esse, non erano perfettamente circolari, ma avevano una forma leggermente ellittica, per adattarsi perfettamente al bastro sul dorso del mulo. Nei Paesi a monte, erano comuni, al posto del costoso “Concon” mastelli con due doghe contrapposte più lunghe, con un foro, per rendere agevole il loro trasporto con un palo, utilissimi per portare il bucato al lavatoio. In ogni fattoria poi, erano sempre presenti le cosiddette “salamoie”, piccoli tini troncoconici, muniti di un coperchio sempre in legno, che servivano per conservare il cibo, come granaglie o sfarinati, al riparo dall’umidità e dai topi, o sottosale, come acciughe, arringhe, baccalà, olive, o anche verdure sottoaceto. Era anche frequente la costruzione di grosse botti lunghe e strette, che erano montate sui carri, per il trasporto di acqua, o per lo svuotamento delle fosse biologiche, che una volta, proprio per la loro forma a botte, erano chiamate “bottini”. Il lavoro principale però era la costruzione delle botti da vino. Si cominciava con la scelta del legno, in base alle richieste del cliente, dalle nostre parti il più economico e di più facile reperibilità, era il castagno, che il bottaio faceva stagionare a lungo alle intemperie, per eliminare gli amari tannini, che avrebbero rovinato il gusto del vino. A richiesta erano usati anche il costoso ciliegio, la longeva quercia, o la tenace acacia. In un mondo dove l’alfabetizzazione era quasi inesistente, era l’uso di “seste, ” e la grande esperienza, che facevano si, che dalle mani del bottaio uscissero delle vere e proprie opere d’arte, sia per l’esatta capacità, sia per la perfezione tecnica. Dopo il taglio delle doghe, il cui numero era rigidamente codificato dalla capacità della futura botte, si passava al montaggio. Questo avveniva con l’aiuto di un simulacro in ferro, al cui interno l’artigiano poneva le doghe, fino a completare una delle bocche, quindi vi metteva un cerchio provvisorio, che forzando le doghe, le teneva insieme. Il simulacro era tolto, si capovolgeva il tutto, e all’interno di quell’embrione di botte, era posto un braciere, alimentato dagli scarti di lavorazione del legno. Quindi, una grossa fune di acciaio era stretta attorno alle doghe ancora aperte, e tramite un argano a mano, si cominciava a tirare. Sotto l’azione del fuoco e dell’argano, le doghe, s’incurvavano, e si restringevano, e a mano a mano, che ciò avveniva, il bottaio metteva altri cerchi provvisori a serrare il tutto. Quando anche l’altra “bocca” era completata, si toglieva il braciere, e i cerchi provvisori, sostituendoli con quelli definitivi. Si passava alla costruzione e al fissaggio dei due coperchi. Questa era forse la parte più difficile di tutta la costruzione. Con l’aiuto del pialletto, i bordi erano assottigliati, per permettere al coperchio di entrare in un solco che il bottaio, con un attrezzo particolare, aveva in precedenza praticato alle due bocche, quindi si montava prima il coperchio inferiore, battendolo con un palo di legno. Prima di montare l’ultimo coperchio avveniva la “tostatura”. Consisteva di porre all’interno della botte un braciere, perché, con il suo calore, innescasse delle reazioni chimiche nel legno, che avrebbero permesso un microscambio di ossigeno, e di sostante aromatiche, tra il vino, e le doghe, cosa che avrebbe migliorato la qualità organolettica, ma soprattutto il gusto del vino. Questo passaggio era il vero banco di prova della bravura del bottaio, che grazie al suo sapere e alla sua esperienza, era in grado, quasi di progettare a priori, il futuro “gusto” predominante del vino. Le botti di un tempo erano di varie forme e dimensioni, da quelle da due litri per l’aceto, a quella da cinquanta quintali per la fattoria, che richiedeva di essere smontata e rimontata sul posto, dai tini da “schiaccio, ” a quelli da fermentazione. Anche lo spessore delle doghe era importante, specialmente in quelle più grosse, perché teneva conto anche di un’eventuale “ripulitura” del suo interno. Oggi purtroppo quest’antico mestiere è quasi scomparso, o svolto solo in modo industriale, con la costruzione in prevalenza delle famose barrique. Questo francesismo, il cui esatto significato è semplicemente “botte,” si riferisce a un tipo di contenitore usato da secoli in Francia, per l’invecchiamento del vino. Costruite con legni di quercia delle foreste Francesi, o della Slavonia, di queste botti ne esistono di due tipi, la Bordolese e la Borgognona, che si differenziano solo per la loro capacità, di poco superiore ai duecento litri. Le loro piccole dimensioni, facilitano lo scambio di sostanze organolettiche tra legno e vino, attenuando il gusto prevalentemente erbaceo dei vini francesi, e rendendone più rotondo il sapore. Su questa “scoperta” si sono versati fiumi d’inchiostro, dimenticando, che i nostri bottai lo sapevano da tempi immemorabili, tanto che ne è scaturito anche il famoso adagio ”nelle botti piccole ci sta il vino buono,” anche se naturalmente, invece di barrique, si chiamavano “bot’zede”(botticelle). Negli ultimi anni, si è scoperto, che ai consumatori dei Paesi anglosassoni, piace moltissimo il sapore del vino “barricato,” così l’industria si è affrettata ad accontentarli, ma, per abbattere i costi, e i tempi di produzione, ha inventato il sistema di mettere nel vino, trucioli di legno, che macerando gli danno tale sapore, una vera e propria “spremuta di legno”. Io penso che sia un bene, che i nostri antichi mastri bottai, non sappiano di questo vero e proprio obbrobrio, che mercifica, e svende, un sapore e un sapere millenario, che, insieme al tempo, era creato dai nostri artigiani, gli unici e veri … artigiani del gusto.
Mario Volpi  
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