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Sezione a cura di Mario Volpi
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Selezione artificiale

Una Volta Invece

Spettabile Redazione

E' di questi giorni la notizia che un artista giapponese è riuscito ad innestare su di un susino ben 45 tipi di piante diverse. Questa notizia sensazionale ai miei tempi, non sarebbe stata neppure una notizia, perchè in quasi tutti i poderi erano presenti alberi da frutti innestati con tre o quattro specie diverse. Un tempo era vitale saper sfruttare al meglio la Natura, senza però violarla o oltraggiarla come si fa oggi, immettendo nell'ecosistema specie aliene, costruite in laboratorio, di cui non si conosce nulla, se non l'avidità di chi le commercializza.


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Selezione...artificiale
L’esistenza degli animali sulla terra, compreso l’uomo, e possibile solo grazie al mondo vegetale, che non solo ci fornisce direttamente il cibo, ma sintetizzando alcuni principi nutrizionali fondamentali come i sali minerali, e le vitamine, li rende disponibili per il nostro organismo. Nel corso dei millenni, l’uomo fu da prima cacciatore-raccoglitore nomade, ma poi imparò a coltivare le piante che erano necessarie al suo fabbisogno alimentare, diventando così non solo un agricoltore, ma inconsapevolmente, creò artificialmente nel corso dei secoli, nuove specie, più gustose, o che si conservavano più facilmente, o più adattabili ad un certo tipo di clima. Questa forma di selezione artificiale, fu per millenni l’unica possibile per far variare una specie vegetale. Anche quando l’uomo fu consapevole di potere intervenire sulla genetica delle piante, questo sistema era molto lungo, perché il cambiamento avveniva solo nel corso di innumerevoli generazioni, e spesso il risultato non era quello voluto. Fu certamente per caso che l’uomo scoprì un modo molto più rapido per far cambiare radicalmente un vegetale: era stato scoperto l’innesto. Con questo sistema, da una pianta madre, era possibile far nascere nel corso di una sola generazione, una specie completamente diversa.
Le prime notizie documentate dell’uso di questa tecnica, risalgono alla metà del X secolo, ad opera di alcuni monaci greci, che innestavano piante da frutto, e viti. Diffusasi lentamente nell’alto medioevo, la tecnica dell’innesto, fu considerata per molto tempo quasi come una curiosità botanica, e conobbe una certa popolarità solo agli inizi del Rinascimento, per l’usanza del tempo di ornare i giardini dei nobili con piante esotiche o “strane” come ad esempio fioriture diverse sul medesimo albero. Fu sul finire del 1700 che ci si accorse della sua reale importanza anche economica, in un tempo in cui gli alberi da frutta venivano lasciati in eredità per testamento, è evidente come questa tecnica migliorativa fosse vitale. Certamente fu nel XVIII secolo che l’innesto conobbe il suo periodo di massima diffusione, si formarono addirittura delle Compagnie di Mestiere composte da innestatori professionisti che giravano per le campagne, offrendo i loro servizi, operando sia sulle viti, ma soprattutto nei frutteti. Si scoprì così che il portainnesti, ossia la parte ricevente, poteva portare il nesto, ossia la nuova pianta, anche di specie diversa, purché appartenente alla stessa famiglia. Così su di un castagno si poteva innestare un pero, oppure mele su pere, o susine su albicocche, senza contare le varie specie, ad esempio di susine, che potevano essere innestate sulla stessa pianta madre. Era possibile da uno stesso albero avere dei raccolti in periodi diversi, e soprattutto di frutta completamente diversa. A riprova di quanto fosse considerata importante questa pratica, fu varata una legge che puniva severamente chiunque rovinasse una pianta innestata. In un periodo che non brillava certo per la cultura, sull’argomento si scrissero dei veri e propri trattati, come il “Trattato sugli innesti” scritto dal “Chiarissimo Avvocato, Ingegnere, Giammaria Venturi, membro della Società d’agricoltura di Reggio Emilia”nel 1816. Ma i risultati più strabilianti sull’uso di questa tecnica, si ebbero sulla vite. Al tempo questa coltivazione subì un devastante attacco dalla terribile Fillossera, un parassita contro il quale non esisteva difesa. Questo insetto era comparso in Francia alla meta dell’800, portato dall’America dai primi battelli a vapore, ben presto si diffuse in tutta Europa, attaccava le radici e distruggeva in pochi anni interi vigneti. La viticultura Italiana e Francese furono azzerate, e non si sapeva come ricominciare. Fu l’intuizione di un professore francese, che capendo che essendo un parassita americano, solo i vitigni americani avevano, nel corso dei secoli, sviluppato delle difese. Si piantarono così dei portainnesti americani, immuni al parassita, che ricevettero poi le viti nostrane. Fu un successo epocale, che dura tutt’oggi, e che ha permesso a Italia e Francia la ricostruzione, e la conservazione del loro immenso patrimonio viticolo. Nel corso dei secoli le tecniche d’innesto si sono evolute arrivando a comprenderne oltre una dozzina, anche se quelle più usate erano due, a spacco e a gemma. Questa pratica fu particolarmente diffusa per tutto il XIX, secolo e parte del XX, arrivando a ridosso degli anni sessanta. Io mi ricordo, che quando ero un bambino, nel mese di ottobre, alla fattoria veniva “il pisano” a innestare. Questo tizio arrivava con una bicicletta sgangherata, con a tracolla una borsa di pelle male in arnese, piena di coltelli, di tutte le forme, seghetti, barattoli contenenti unguenti per me misteriosi, ma soprattutto enormi gomitoli di rafia. Con il fattore percorrevano i filari del vigneto, e lui troncava con le forbici, o col seghetto le viti che gli venivano indicate, e dopo passava a innestarle. Io restavo incantato a vedere la sicurezza e la velocità delle sue mani nel fare la zeppa al nesto, poi legava il portainnesti con la rafia prima di fargli lo spacco, quindi inseriva uno o due nesti secondo la grandezza della vite e legava tutto strettamente, poi con un pennello impiastricciava il tutto di una cosa appiccicosa, quindi con terra argillosa e un pezzo di iuta da sacco fasciava il tutto. Oggi queste cose in campo non si fanno più, sono scomparse, si preferisce mettere a dimora piante già innestate a macchina da ditte specializzate, o peggio ancora si ricorre a organismi geneticamente modificati, perdendo per sempre specie vegetali millenarie, e secoli di sapere. Gli innesti artigianali sono tornati a essere semplici curiosità, come quel susino, su cui un artista giapponese è riuscito a innestare 45 specie diverse.

Volpi Mario
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