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Sezione a cura di Mario Volpi
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Gli architetti dell’acqua

Una Volta Invece

Cara Redazione
Mentre nelle frazioni a monte, l'acqua era praticamente in superfice fresca e potabile, al piano quella superficiale era malsana e portatrice di malattie, così si cercava quella "buona" nei pozzi. Impresa titanica con i mezzi del tempo, che si avvaleva dell'opera di veri e propri specialisti itineranti, i cosidetti POZOLAN.


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Gli architetti ... dell’acqua

La vita di tutti gli esseri viventi sulla Terra è possibile grazie alla presenza di un elemento insostituibile; l’acqua. Anche l’uomo non sfugge a questa ferrea legge naturale, e nella sua millenaria evoluzione, ha sempre cercato il modo migliore per procurarsela. Dopo la caduta dell’Impero Romano, e la decadenza dei suoi splendidi acquedotti, per secoli, l’approvvigionamento idrico, è stato possibile attingendo da pozzi, o sorgenti, o con l’immagazzinamento di acqua piovana in cisterne interrate. A Carrara, in particolar modo nei nostri paesi a monte, l’acqua non è mai mancata, ma spesso questa scaturiva da sorgenti poste in luoghi quasi inaccessibili, così i nostri antenati, escogitarono un ingegnoso sistema per portare il prezioso liquido in luoghi più facilmente raggiungibili. Si costruiva una piccola cisterna nella roccia, dove la sorgente scaturiva, per creare una piccola riserva idrica, poi si scavava una canaletta in pendenza, che era piastrellata con le tegole dette “coppi” poste in sovra monta le une con le altre, fino a raggiungere un luogo di facile accesso, qui si scavava un’altra cisterna, la si murava completamente, e si poneva alla sua sommità un tubo di bronzo, che sarebbe diventato la bocca della futura fontana. Nessuna di queste vere e proprie opere d’arte d’ingegneria idraulica, è giunta integra sino a noi, solo alcune cisterne si sono salvate, anche se ormai in disuso. Al piano invece si preferiva l’uso di pozzi, sopratutto per contrastare in qualche modo la Malaria, al tempo endemica. Costruire un pozzo, con i mezzi del tempo, era, oltre ad una fatica sovrumana, anche una vera e propria sfida tecnologica, dove senza alcun strumento, se non scale, secchi e badili, oltre a tanta esperienza, si impegnavano risorse umane e finanziarie, per un lavoro, che non si era sicuri che andasse a buon fine.

Lo scavo dei pozzi, da prima quadrati in legno, e poi rotondi in muratura, è una pratica antica come l’uomo, che durante i millenni ha subito poche variazioni, arrivando intatta, addirittura a ridosso degli anni cinquanta. In quegli anni, gli ultimi esemplari di questi manufatti, nella zona di Carrara, erano costruiti da compagnie di lavoratori itineranti, chiamati in dialetto “pozolan ” di cui, spesso, il capo era anche rabdomante. Queste persone erano in grado non solo di trovare l’acqua con un semplice ramo di salice o di nocciolo, ma ne determinavano anche il senso di scorrimento, e addirittura, con l’uso di un pendolino, l’esatta profondità in cui si trovava. In genere questa piccola “impresa”, era composta di persone appartenenti allo stesso nucleo famigliare, e comprendeva, un mastro muratore, e tre o quattro sterratori, ma se il lavoro era particolarmente impegnativo, ricorrevano al reclutamento di manodopera locale. Il loro compenso era erogato in due modi, a metri, o a forfait, e variava anche in base alla quantità, e alla qualità, dell’acqua trovata, fermo restando che tutto il materiale necessario allo scavo era a carico di chi commissionava il lavoro. Le modalità di esecuzione dello scavo erano in prevalenza due, e si sceglievano secondo la disponibilità finanziaria del committente, la larghezza e profondità del futuro pozzo, o se era necessario captare acqua di superficie, o da “una vena” come di diceva un tempo. Il primo metodo, prevedeva lo scavo di una buca molto più larga del futuro pozzo, e a mano, a mano, che si scendeva, le pareti venivano armate con tavole e puntelli, per evitare frane, fino a quando la terra estratta cominciava a essere abbastanza”bagna” (bagnata.) Allora si cominciava la muratura circolare del pozzo, di solito fatta con mattoni pieni posti di testa, e qui i metodi erano diversi, ha secondo di chi li eseguiva. Alcuni muravano una fila sì, e una no, per permettere il filtraggio dell’acqua, altri lasciavano una fessura tra mattone e mattone, murando il tutto. Della ghiaia di piccola pezzatura, e sabbia di fiume, era poi gettata tra la muratura e la terra esterna, dopo aver eliminato l’armatura di legno, così da formare una sorta di filtro permeabile all’acqua. Questo pozzo era detto in dialetto a “filtrar” (a filtrare) e per funzionare a pieno, dopo la sua costruzione, aveva bisogno di parecchi giorni, perché l’acqua riempisse completamente la colonna murata, e si decantasse dall’intorbidamento. Il secondo tipo invece, prevedeva di usare dei mattoni già “curvi”, con cui era possibile eseguire un cerchio perfetto, di diametro stabilito. Si procedeva così: si faceva un solco circolare delle dimensioni esatte del futuro pozzo, con l’aggiunta dello spessore dei mattoni, quindi si passava alla loro messa in opera, e si muravano, avendo cura che fossero ben stretti, quindi si toglieva la terra all’interno del cerchio, e sotto la prima fila, un mattone alla volta, sostituendola con altri mattoni, fino a raggiungere la falda acquifera. Questo sistema era considerato migliore del primo, perché più economico, visto che non prevedeva l’uso dell’armatura, ma era valido solo in zone ricche di falde. 
Era anche abbastanza pericoloso, perché alcune volte poteva “scoppiare,”ossia arrivati a pochi centimetri da una falda importante, questa, essendo sotto pressione, poteva rompere il fragile diaframma, e in pochi secondi allagare tutto il pozzo, affogando chi era al suo interno. Dopo la costruzione della parte interrata del pozzo, si passava a quella esterna. Quella specie di piccola balaustra di protezione era chiamata, proprio perché circolare, “vera da pozzo, ” e poteva essere costituita da un semplice muretto di mattoni, o in massello di marmo, riccamente istoriato, come spesso accadeva nei cortili delle case patrizie. Sopra la vera, era realizzato in legno, o in ferro battuto, una travatura, dove si poneva una carrucola con il secchio per attingere l’acqua. Nelle aie questa travatura era molto ampia, fino a formare un piccolo tetto, coperto con tegole, con lo scopo di riparare dalla pioggia chi attingeva l’acqua, ma soprattutto per impedire a rami e foglie trasportati dal vento di cadere nel pozzo inquinando così l’acqua. I pozzi presenti nelle aie di ogni casa colonica, o piccolo borgo, avevano a fianco una conca, di solito di marmo, ma spesso in muratura, che serviva da abbeveratoio per gli animali. Il pozzo non era importante solo dal punto di vista della pura e semplice sopravvivenza, ma era anche il luogo, dove la comunità socializzava, mentre attingeva l’acqua, dove d’estate si metteva in fresco il vino o l’anguria, da consumarsi assieme al tavolo posto sotto il pergolato.
Oggi sono pochissimi i pozzi sopravissuti, e quei pochi sono chiusi, e usati solo a scopo ornamentale. Così, mentre un tempo per l’uso di un pozzo si poteva arrivare a una guerra, oggi sono addirittura quasi sconosciuti alle nuove generazioni, che ignorano anche, che se oggi noi siamo qui, lo si deve in gran parte a questi antichi e sconosciuti ... architetti dell’acqua.


Volpi Mario
28 ottobre 2014

Foto concesse gentilmente dal Signor Franco 


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