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Sezione a cura di Mario Volpi
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Civitas a Megalopoli

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Spesso gli umani cercano di copiare dalla Natura per riprodurre a proprio vantaggio tecniche di sopravvivenza, o materiali "hi tech" come la tela di ragno. Non sempre però questi esperimenti riescono. Così, mentre api e formiche riescono a vivere in milioni d'individui all'interno di un'unica "casa," questo per l'uomo, crea solo problemi, spesso irrisolvibili.
Come gran parte dei mammiferi, anche l’uomo è un animale sociale. Questa sua tendenza all’aggregazione con altri individui della sua stessa specie, fu evidente fin dal Paleolitico, dove piccoli gruppi di ominidi, crearono le prime tribù. Ma la vera svolta nell’evoluzione fu quando da cacciatore e raccoglitore nomade, l’uomo si trasformò in agricoltore e allevatore stanziale. Questo periodo fu caratterizzato dalla nascita dei primi accampamenti fissi, attorno ai quali si svolgeva la vita quotidiana, senza più la necessità di percorrere chilometri in cerca di sostentamento. La tribù stanziale, comportava per il singolo individuo, degli enormi vantaggi. Prima di tutto poteva contare sul lavoro collettivo per modificare l’ambiente secondo le sue necessità, altra cosa d’importanza basilare, era la possibilità di difesa collegiale contro animali selvatici, o altre tribù ostili, e non ultimo, la possibilità di effettuare più facilmente piccoli commerci o baratti, necessari alla sua sopravvivenza. L’apice di questa “associazione d’individui” si ebbe in età romana con la nascita delle Civitas. Queste prime città possedevano anche un abbozzo di progetto urbanistico comprendente edifici di pubblica utilità, come templi, terme, fonti pubbliche, e Foro, dove si amministrava la giustizia, oltre ovviamente, l’immancabile circo, per i giochi. Nelle Civitas romane, il cittadino era considerato parte integrante della città, con doveri e piaceri, che dovevano essere in egual misura soddisfatti. Con la caduta dell’Impero Romano, però, tutto questo cadde in rovina, le popolazioni barbariche, erano nomadi, e non capivano neppure il concetto di città. Per secoli le italiche genti tornano quasi all’età della pietra, decimate da saccheggi, stragi, e carestie devastanti, seguite da terribili epidemie, che in alcuni casi, misero la scarsa popolazione Europea a rischio d’estinzione. Qualunque tipo di comunità si dissolse, e i superstiti si frammentano in piccolissimi gruppi, quasi sempre composti di un solo nucleo famigliare, che per sfuggire alle violenze, si nascondevano nel folto di macchie, o boschi impenetrabili. Solo attorno all’anno mille, si torna a un barlume di civiltà collettiva, con l’aggregarsi di piccoli gruppi di persone nei dintorni di chiese o conventi, gli unici luoghi che nell’immaginario della gente, potevano offrire una qualche forma di protezione contro la legge del più forte. Piano, piano, si formarono i Castrum, piccoli agglomerati di baracche attorno a castelli o abbazie fortificate. Nascono così le prime vere città, cinte da mura, dove le case con la gente sono all’interno, e i campi, fonte di sostentamento alimentare, sono all’esterno di esse. Per secoli, le città, saranno così strutturate, assicurandosi che tutto quello riguardante la logistica “alimentare,” vitale per la sopravvivenza dei suoi abitanti, non fosse distante più di mezza giornata di carro. Questa necessita di non “consumare,” per costruzioni edili, terreno utile per scopi agricoli, o da pascolo, fece sì che i centri urbani non potessero svilupparsi in ampiezza più di tanto, e di conseguenza anche il numero degli abitanti restò praticamente invariato. Ma sul finire del XVII secolo, una nuova invenzione, cominciò lentamente a porre fine a questa limitazione, che fino ad allora pareva insormontabile. Con le prime ferrovie dotate di locomotive a vapore, la distanza cominciò a non essere più un problema. La città poteva fare arrivare tutto quello di cui aveva bisogno anche da distanze un tempo incolmabili. Non solo, alcune categorie di persone, come i braccianti, prive di esperienze lavorative al di fuori di quella agricola, che un tempo non avrebbero avuto prospettive di sopravvivenza nei centri urbani, ora, con i nuovi mestieri legati al commercio, e al lavoro in fabbrica, potevano aspirare a un impiego e una vita migliore. Così a poco, a poco, le città, non avendo più alcun bisogno della campagna circostante per uso agricolo, la usarono per espandersi, con la costruzione di case, ma soprattutto di enormi edifici per la nascente industria, che prometteva lavoro e pane per tutti. Questa politica autolesionista, ebbe il suo culmine agli inizi del XIX secolo, con le migrazioni di massa dalle campagne verso le città, con il miraggio di uno reddito economico fisso; il salario. Quasi sempre, però, questo fenomeno, si rivelò per molti, il classico salto “dalla padella alla brace,” perché, mentre prima da agricoltori, almeno il cibo lo avevano, ora, molti di loro erano costretti a mendicarlo, o a procurarselo con mille espedienti, incluse azioni criminali. Il numero degli abitanti in alcune città salì in modo vertiginoso ed esponenziale, fino a sfiorare, in alcune di esse, il folle numero di venti milioni di abitanti. La nascita delle megalopoli, con la loro immensa popolazione, in uno spazio relativamente ristretto, ha causato, e continua a farlo, problemi logistici difficilmente risolvibili, come inquinamento acustico, e ambientale, traffico caotico, sacche di povertà estrema, dovuta alla mancanza di lavoro per tutti, con la nascita di interi quartieri di baraccopoli, privi di qualsiasi servizio, come le favelas brasiliane. Ma i problemi non finiscono qui, vi sono difficoltà nel reperire, e distribuire, le risorse idriche, com’è problematico farlo in modo efficiente con l’energia elettrica, scarsa capacità di depurare le acque di scarico, e di raccogliere e trattare adeguatamente le migliaia di tonnellate di rifiuti solidi urbani prodotti quotidianamente. Anche l’ordine pubblico non è garantito, visto l’altissimo tasso di criminalità. Perfino il territorio Apuano, non fu immune da questa “corsa al progresso” come veniva chiamata al tempo, quest’assurdo fenomeno sociale. Tra Massa e Carrara, nacque, durante il ventennio, un Polo Industriale, con stabilimenti petrolchimici, chiamato pomposamente “la Zona,” che prometteva un radioso futuro, e un sostanzioso ritorno economico per tutti. La vasta pianura alluvionale ai piedi delle Apuane, un tempo un vero e proprio giardino, venne deturpata irrimediabilmente con la costruzione di enormi fabbriche, e i contadini che vi lavoravano furono convinti a trasformarsi in operai. Dopo pochi anni però, questo sogno si dimostrò effimero, come un miraggio nel deserto. Dopo alcuni gravi incidenti ambientali, le industrie “delocalizzarono” all’estero, dopo aver avvelenato forse per secoli, la terra, e le falde acquifere. Ai carrarini rimasero solo l’incidenza di tumori più alta d’Italia, e i fatiscenti scheletri in cemento armato dei capannoni, spesso coperti con la cancerogena “Eternit,” che tanti lutti ha provocato, e che provocherà ancora per decenni. Così centinaia di ettari di meravigliosa campagna sono stati sacrificati per sempre, in nome di un miracolo economico, mai avvenuto.

Mario Volpi 17.4.21
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