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Un ramponiere marinello

Mare Apuano
Spetta/Le Redazione
La marineria marinella ha contribuito con parecchi suoi figli anche a l'epopea della caccia alla balena, oggi considerata un crimine ma un tempo fonte di reddito e di materie prime. Giuseppe Gregori, era imbarcato su una di queste navi che restavano in mare anche per tre anni. Io ho tratto il mio racconto da un frammento del diario di bordo di una di queste baleniere, mettendolo come protagonista.


Un eroe … avenzino!!!
Il gelido vento artico, sferzava il sartiame della baleniera, e il suo sinistro lamento, faceva rabbrividire ancora di più Giuseppe, sulla coffa dell’albero di mezzana. La luce di mezzanotte, rendeva l’atmosfera irreale, quasi spettrale. A babordo un enorme iceberg, gli ricordava vagamente la sagoma del Monte Sagro, che non vedeva da tempo immemorabile. Ricordava perfettamente quel giorno di primavera di una vita fa, quando, contro il parere del padre, aveva deciso di andare a Genova per imbarcarsi per l’America. La vita a Marina di Carrara, era diventata troppo dura, per lui e i suoi sei fratelli, tutti pescatori come il padre. Il piccolo e malandato gozzo, che il nonno aveva costruito con le proprie mani, non riusciva più a sfamare la numerosa famiglia. I tramagli gettati sotto costa, restavano spesso vuoti, proprio come le loro pance. Così lui cercava di incrementare la pesca con un nuovo sistema. Usava proprio il vecchio gozzo di famiglia, con due dei fratelli più grandi ai remi, per insidiare i delfini, che spesso passavano al largo. Si era costruito una rozza fiocina legata a una piccola cima, e con questa, era riuscito a catturarne parecchi, ricavando qualche soldo con il musciame essiccato che vendeva ai ricchi signori. Un albatros lanciò il suo rauco verso che lo fece trasalire, poi dopo aver scrutato per l’ennesima volta l’orizzonte desolatamente vuoto, si rituffò nei suoi ricordi. Sbarcò nell’ottobre del 1847, in un posto del Massachusetts, di cui non riusciva, nei primi giorni, neppure a pronunciare il nome, New Bedford. Questo porto era la base di partenza delle baleniere, che solcavano i mari di tutto il mondo. Riuscì a trovare un imbarco quasi subito, e la sua esperienza come ex pescatore, lo aiutò molto nell’abituarsi alla dura vita di bordo. La prima spedizione durò tre anni, e la sfortuna di qualcuno, fece la sua. Durante una caccia, egli era uno dei sei rematori di una lancia, lanciata all’inseguimento di un grosso capodoglio, quando questi, con un violento colpo di coda, uccise l’ufficiale, e il ramponiere, e ferì gravemente due marinai. Recuperati mezzo assiderati da una delle altre scialuppe, dopo poco il comandante chiese chi avesse esperienza come fiocinatore. Lui, timidamente, raccontò cosa faceva con i delfini. Il comandante rimase un attimo in silenzio, quindi chiamò il nostromo e gli ordinò di gettare in mare un barile vuoto, poi porgendo un pesante rampone a Giuseppe disse”colpiscilo”. Sapendo che era in gioco la sua affidabilità, e che si stava giocando tutta la sua futura carriera, Giuseppe, cercò di ignorare le farfalle che svolazzavano nel suo stomaco, e il cuore, che aveva deciso di spostarsi nelle sue orecchie, prese la mira, e con tutta la sua forza lanciò. Il barile colpito, affondò, ma quando riemerse l’arpione era profondamente piantato su una delle sue doghe. “Bene,” disse il capitano,”da oggi sei il ramponiere della baleniera numero tre!” “sissignore” rispose Giuseppe rosso come un peperone. La campana suonò la fine del suo quarto di guardia in coffa, scese, e dopo aver salutato il cambio, si recò sotto coperta vicino alla stufa per cercare di riscaldarsi, visto che quasi non si sentiva più padrone del proprio corpo. Sorseggiando un caffè bollente ripensò a quel giorno ormai lontano, quanti anni erano passati? Quasi non se ne ricordava neppure più. Ora era un ramponiere apprezzato e conosciuto, era anche diventato benestante, perché il compenso del ramponiere era secondo solo a quello del comandante, ma era inutile avere denaro se non hai il tempo di spenderlo, pensò con un amaro sorriso, per quello aveva deciso; questo sarebbe stato il suo ultimo imbarco. Dopo due anni di navigazione, le stive della Black Star, erano colme di barili d’olio, e sarebbe bastato una sola altra balena per fare ritorno a terra, per lui, per sempre. Proprio in quel momento il fatidico grido, arrivò dalla vedetta sulla coffa, e animò tutta la nave. “A tribordo! Eccola che soffia! Sono tre”! I quaranta uomini dell’equipaggio, scattarono all’unisono come una macchina ben oliata. Giuseppe come primo ramponiere, si diresse alla scialuppa numero uno, salì rapidamente a bordo insieme ai rematori, e al primo ufficiale che ordinò, ”ammaina”. Appena toccato le onde, i rematori con perfetto sincronismo, cominciarono a remare, mentre l’ufficiale si poneva a poppa alla barra del timone, e Giuseppe in piedi sul dritto di prora, con il fido rampone in mano. L’ufficiale iniziò a incitare i rematori, usando un linguaggio tipico dei marinai del tempo. “Avanti, sfaticati, remate, voglio che vi spezziate la schiena, forza rompete i remi, o li spaccherò sulle vostre schiene, via, via, via! voglio vedere il sangue al posto del sudore avanti!!” La lancia sembrava quasi volare sulle onde, tale era la sua velocità, la prora fendeva le verdi, e gelide acque del mare di Bering, lasciandosi dietro una lucente scia, punteggiata dei precisi colpi dei rematori. Il piccolo branco di balena era a poche centinaia di metri, le grosse groppe emergevano ritmicamente, mentre dagli sfiatatoi uscivano grossi sbuffi di vapore. Altre tre lance si avvicinavano da tribordo e babordo, con l’intenzione di circondare il branco per sterminarlo. Fu allora che accade! Un grosso maschio, certamente il capo branco, s’immerse, per riemergere proprio a pochi metri dalla scialuppa numero due. Il ramponiere scagliò il proprio ferro, ma l’animale parve non accorgersene, puntò dritto contro la fragile imbarcazione, e la colpì con la possente testa. La lancia fu sollevata come un fuscello, prima di ricadere capovolta, l’animale, non contento, s’immerse, e dopo pochi secondi schizzò con un balzo fuori dall’acqua, per ricadere, con tutto il proprio peso sugli uomini, e ciò che restava della barca. Giuseppe provò una stretta al cuore, vedendo quella scena, perché sapeva bene che la permanenza in quelle gelide acque, era di pochi minuti, prima di morire congelati. Il primo ufficiale virò di bordo per prestare soccorso, ma quando arrivarono sul posto, videro galleggiare solo cadaveri. Intanto, del capodoglio assassino non vi erano tracce, si era immerso negli abissi, e ciò non prometteva nulla di buono. All’improvviso, a Giuseppe parve di scorgere una sagoma scusa che arrivava velocemente, capì subito che l’animale stava riemergendo per tentare con loro la stessa manovra. “Remate, remate, sta riemergendo!” I vogatori fecero scattare in avanti la piccola imbarcazione, evitando per un soffio la testata fatale. Mentre s’immergeva, Giuseppe scagliò il suo ferro con tutta la forza che la rabbia, e la disperazione gli davano, colpendo il levitano, appena sotto la pinna dorsale. “Ben fatto” urlò l’ufficiale inzuppato, dai gelidi spruzzi, “agguanta la cima del rampone, remi a bordo” ordinò alla ciurma. La cima fu passata attraverso una galloccia a un passacavo, che ne frenavano il veloce scorrimento. Ora la balena in immersione, stava tirando la scialuppa che filava sulle onde come se fosse spinta, fa una invisibile mano, “acqua alla cima” ordinò l’ufficiale. Un marinaio prese con un piccolo contenitore incatenato alla scialuppa acqua di mare, e la gettò sulla piccola bitta in legno, da cui si levò immediatamente una piccola nube di vapore. Di colpo, la scialuppa rallentò fino a fermarsi,” è stanca” disse l’ufficiale “ramponiere preparati a finirla appena riaffiora”; Giuseppe non disse nulla, ma gli sembrava che fosse troppo facile. Fu un attimo. Il mare intorno alla scialuppa parve gonfiarsi, prima di esplodere verso l’alto, attorno all’enorme testa del cetaceo, che colpì in pieno l’imbarcazione, spezzandola in due. Giuseppe fu sbalzato in mare, e sfiorato dall’enorme coda dell’animale che si rituffava negli abissi. Con la forza della disperazione riuscì ad aggrapparsi ad alcuni rottami, mentre il gelo delle acque sembrava volergli fermare il cuore. Con indicibile sforzo, riuscì a issarsi su ciò che restava della poppa della lancia, il freddo era tremendo, e lo faceva tremare senza controllo. I piedi restavano in acqua, perché il relitto era troppo piccolo. Dopo l’attacco, il mare era tornato calmo, ma ai suoi disperati richiami non ottenne risposta. Ora non riusciva più a muovere le gambe, non sentiva più i piedi, mentre anche le mani avevano difficoltà a trattenerlo sul rottame. Un senso di torpore cominciò a invadere il suo corpo, fino a quando tutto divenne nero, e svenne. Si risvegliò dopo un tempo infinito a bordo della Black Star. Il comandante gli disse che avevano perso quindici uomini, e due scialuppe, e che stavano tornando verso casa, Non ebbe il coraggio di dirgli che anche lui, aveva tutti e due i piedi congelati, e che la cancrena aveva cominciato a insorgere. Giuseppe non arrivò mai in porto, il suo corpo fu gettato in mare, dopo una semplice cerimonia, al largo dei Banchi di Terranova. Finì così l’avventurosa vita di un pescatore marinello, che per sfuggire alla miseria, divenne il miglior fiocinatore del suo tempo, ma che, forse per vendicare i suoi figli, il mare reclamò a se, custodendone per sempre le spoglie, nei suoi gelidi, e oscuri abissi.

Mario Volpi

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