Porciorasco il paese fantasma - carraraonline.com

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Porciorasco il paese fantasma

Itinerari liguri
I capitolo - Riposo eterno.
Mentre sfogliavo un libro sulla storia antica locale, fui attratto dall’immagine di un architrave in arenaria con inciso un bassorilievo, murato sopra l’ingresso di una piccola casa in pietra. L’incisione, unica nel suo genere, raffigurava la scena del parto. Sui portali che nel tempo ho fotografato nei paesi che ho visitato, ho visto incisi  fiori, piante, animali, stemmi, scudi, facce, croci e soldati ma mai avevo visto un’incisione simile a quella del libro.
Appassionato di cose antiche, mi chiesi  perché  quella  pietra si trovasse proprio sopra quella casa di quel piccolo paese agricolo le cui origini parevano risalire al 700. Con questo interrogativo nella mente decisi di investigare. Così,  un sabato primaverile dal cielo terso e dall’aria fresca, ritenni fosse la giornata giusta  per cercare di scoprire se ci fosse stata una ragione plausibile a tutto ciò. Preparai lo zaino e, dopo essere passato a prendere un panino alla bottega sotto casa, imboccai l’autostrada alla volta del paese fantasma. Dopo un’ora di viaggio uscii al casello di Varese Ligure e proseguii sempre in direzione di Varese Ligure fino a quando, dopo un quarto d’ora, trovai sul ciglio della statale una piccola freccia di legno posta a mo’ di segnaletica che indicava a destra il nome del paese che cercavo reso a mala pena leggibile dalle intemperie. Dopo circa trenta minuti di saliscendi arrivai alla mia meta e qui iniziarono le sorprese. Parcheggiai a lato della strada e prima di proseguire a piedi per la sterrata che conduceva al paese abbandonato, tornai indietro per un centinaio di metri perché nel salire con l’auto avevo notato una piccola chiesa a lato della strada. L’edifico sacro,  edificato dalla famiglia De Paoli, su una piccola piana era composto da un solo locale e circondato da cipressi. La porta d’ingresso era chiusa ma a lato, per mia fortuna, una piccola finestrella protetta con un’inferriata aveva il vetro rotto e ciò permise di soddisfare la mia curiosità. Feci entrare la mano con lo smartphone nell’apertura e scattai alcune foto dell’interno. L’ambiente era completamente fatiscente, degli affreschi alle pareti non rimaneva quasi più nulla, al centro del pavimento sconnesso una scaletta scendeva verso l’ignoto, poco oltre trovava posto un piccolo altare di marmo bianco. Adiacente alla chiesetta, un muretto perimetrale recintava un fazzoletto di terra  protetto da un cancello in ferro semi accostato. Con una leggera pressione della mano spinsi in avanti, con un cigolio di ferro arrugginito, il cancello che si aprì e potei entrare. Abbandonate croci divelte a terra ricoperte di muffe e muschi erano testimonianze mute e dimenticate di quello che un tempo era stato il cimitero del piccolo borgo. Mi fermai qualche minuto in quel luogo di riposo eterno e con lo sguardo perso nel vuoto della vallata, ascoltai la voce del silenzio. Dopodiché, com’ero entrato, uscii chiudendomi alle spalle, oltre che il cancello, pensieri e riflessioni. Tornai all’auto parcheggiata e poi m’incamminai verso il paese non sapendo cosa mi aspettasse. Da lontano vedevo la cima di un campanile, che svettava solitaria sopra il bosco, come una secolare sentinella.
La sterrata conduceva in uno slargo al centro del quale un’enorme quercia creava una piacevole ombra. Entrai quasi timoroso in quella che era la piazza principale del paese. La pavimentazione, tutta dissestata, era fatta di pietre rozzamente sbozzate. Accanto alla quercia secolare trovava posto una fontana in pietra grigia ormai secca, con un abbeveratoio scavato in un grosso macigno. Davanti a me c'era una costruzione massiccia, quadrata e con un orologio fermo sulla parete che segnava le 18.55 oppure le 6.55 chissà di quale giorno lontano. Questo edificio era la chiesa del paese. Sul lato destro staccato, all’incirca, una decina di metri,  svettava il  campanile, mentre a sinistra un maestoso palazzo a pianta rettangolare era racchiuso dentro un muro a secco.
SECONDO CAPITOLO - Il paese fantasma
  • La chiesa.
La chiesa è una struttura imponente in pietra locale con la facciata intonaca in stile neoclassico rinascimentale. San Michele Arcangelo edificata nel 1840 ha origini molto più antiche, infatti, risulta costruita sopra le rovine di una precedente costruzione sacra risalente al 1183 eretta dai frati alle dipendenze dell’abate Ildebrando, colui che fu il primo vescovo nominato nel 1183 da Innocenzo II.  Peccato che la chiesa fosse chiusa, così mi ripromisi di tornare per vedere il suo interno il 29 di settembre, data nella quale si celebra la festa parrocchiale. Ma, visto cosa vidi alla ine del mio giro…

  • Il campanile
L’importante campanile è in linea con lo stile pseudo barocco delle costruzioni locali e si trova dirimpetto alla chiesa. Costruito anch’esso in pietra, è scostato dalla chiesa, cosa comune nel medioevo, perché le vibrazioni dovute all’oscillazione delle campane avrebbero danneggiato la struttura della chiesa. La cella campanaria si trova al quarto livello e vi si trovano quattro campane e altrettante finestre che si affacciano sulla vallata, sul paese e sul sagrato. La porticina di accesso socchiusa, era un’irresistibile tentazione per salire il circolare e buio cilindro che portava al locale delle campane. Mi sfilai lo zaino dalle spalle e dopo averlo posato a terra, accesi la torcia del cellulare e salii verso l’alto per la stretta scala a chiocciola. Arrivato sopra, con una bella testata, constatai che le campane funzionavano ancora alla perfezione e alcuni rintocchi ruppero il silenzio della valle. Da lassù la vista era veramente notevole. Sopra di me il campanile saliva verso il cielo ancora di un piano per poi terminare con una cupola sulla quale spiccava una croce in ferro. Dopo aver disperso nel vento altri rintocchi ridiscesi e puntai dritto all’imponente struttura del palazzo sull'altro lato dalla piazza dalla quale partivano alcuni stretti vicoli che come vene, entravano nel corpo del borgo. Scelsi quello più largo, forse un tempo, la strada principale del paese, e m’incamminai verso la costruzione.
Palazzo De Paoli
Ormai la parietaria e i rovi, avevano riempito ogni interstizio, quasi che la Natura volesse riprendersi spazi strappatigli dall’uomo secoli prima. Le case sono addossate le une alle altre, come se sapendo, di essere pericolanti, volessero sorreggersi a vicenda. Molti i tetti crollati con i mozziconi delle antiche travi che spuntano dalle massicce mura come costole dilavate di una carcassa da tempo in decomposizione. Entrai nella costruzione passando da dietro. Verso la fine del perimetro una parte del muro di cinta era crollata, scavalcai e mi ritrovai nell’interno della corte. Nel seicento Don Stefano De Paoli parroco di Porciorasco, acquistò il palazzo al centro del paese per farne la  dimora della sua famiglia. Qui la famiglia De Paoli creò tra il settecento e l’ottocento  un complesso ma funzionale intreccio di attività economiche. In pratica, uno scambio di capitale e lavoro da parte della potente famiglia con i contadini, agricoltori e artigiani di tutta la vallata, mettendo a loro disposizione le strutture interne al palazzo adibite  alla raccolta e trasformazione dei prodotti agricoli. L’azienda De Paoli erogava prestiti in denaro in cambio di prodotti agricoli e di forza lavoro. Nell’imponente palazzo oltre ai locali abitativi erano ricavati gli spazi per il lavoro con magazzini e i laboratori di trasformazione. La corte è completamente pavimentata a mattoncini rettangolari ormai sbiaditi dal tempo così come il colore rosa chiaro della facciata. Sopra alla porta principale tra due finestre fatiscenti spicca uno stemma marmoreo raffigurante un elmo. All’estremità della corte si trovavano i vari laboratori; dal fabbro, al frantoio per l’olio come testimonia una macina in pietra trovata dentro uno di questi locali, il deposito per i cereali, il caseificio, la falegnameria, il granaio e il fienile. I prodotti alimentari, una volta trasformati, erano conservati nel piano sotterraneo del palazzo. Gli ultimi discendenti della famiglia De Paoli di Porciorasco morirono nella prima metà degli anni ’30 del XX secolo e la proprietà fu ereditata dalla famiglia Gotelli. Mentre curiosavo tra i locali e le attrezzature  abbandonate pensai a come fosse stata la vita tra il settecento e l’ottocento in questo luogo ora silenzioso e deserto. Immaginai il borgo che alle prime luci del mattino man mano si animava e si riempiva di profumi e colori. Vidi il pastore che usciva dall’ovile con le pecore per recarsi al pascolo, i contadini che raggiungevano i campi per la mietitura del grano, vidi chi si recava nei vari laboratori, la stalla con le mucche e  per un attimo chiudendo gli occhi mi parve di sentire anche gli odori. Chissà quante persone abitavano in questo luogo perso nella valle. Un piccolo borgo fatto di casette in pietra l’una attaccata all’altra  ma con un’enorme chiesa, testimonianza di una forte devozione religiosa da parte della famiglia De Paoli e degli abitanti. Il cimitero, la prima chiesetta, il campanile, la chiesa di San Michele, il palazzo De Paoli, cos’altro ancora mi avrebbe riservato questo luogo incredibile? Tra l’altro  non avevo ancora trovato quello che mi aveva spinto fin  quassù ed era giunto il momento di trovarlo. Continuai il mio giro senza incontrare anima viva mentre  il sibilo del vento e lo sbattere di qualche vecchia imposta, mi mettevano addosso una certa inquietudine. Qualche goccia di pioggia mi consigliava di desistere nella visita ma la curiosità superava di gran lunga, la paura di bagnarmi. In molte case, le finestre, prive d’infissi, sembrano le orbite vuote di un teschio, mentre alcune erano sbarrate, anche se prive di vetri. Continuavo a fotografare con il telefonino, queste modeste abitazioni ormai silenziose, immaginando a quante persone avevano dato rifugio e sicurezza nei secoli passati. Arrivato dove due vicoli s’incrociavano, svoltavo a destra e arrivai alla casa abitata.
TERZO CAPITOLO
La casa abitata.
Girando tra i ruderi del paese m’imbattei in una casetta ben curata sulla porta d’ingresso della quale un foglietto attaccato con dello scotch riportava questa dicitura: “La salvezza di questo mondo non risiede altrove se non nel cuore dell’uomo, nel suo potere di riflettere, nella sua gentilezza e nella sua responsabilità” Vàclav Havel. Fuori nel piccolo giardino circondato da fiori c’erano istallazioni artistiche in legno e in pietra. Sopra ad un tavolo in ferro smaltato di bianco si trovavano diversi contenitori  ricavati da grosse canne di bambù con dentro pennelli e matite colorate. Quattro sedie, anch’esse in ferro smaltato, erano al proprio posto, con la seduta sotto il tavolo. Tutto era estremamente in ordine e nulla era lasciato al caso. Sul basso muretto perimetrale conchiglie allineate si alternavano a sassi ovali decorati. Quell’angolo di paradiso era l’unico posto abitato tra le case secolari costruite con pietre a vista e con la copertura dei tetti a lastre di arenaria grigia. Si capiva benissimo che lì abitava qualcuno, ma chi? Seduto sul muretto, estrassi dallo zaino la bottiglietta d’acqua e mi dissetai. Mentre mi riposavo all’ombra di un fico presi la decisione, per non girare più volte nello stesso punto del paese di disegnare sopra il mio inseparabile blocco notes, una mappa del paese marcando con una x le case già viste dato che molte erano simili. Passò all’incirca una mezz’ora e nessuno si fece vivo. Dopodiché mi alzai e ripresi il giro nel paese dimenticato alla ricerca della mia incisione.
QUARTO CAPITOLO
Le incisioni.
Alcune delle abitazioni erano ancora in buone condizioni, mentre altre in parte erano crollate e all’interno erano nati arbusti, rovi e alberi. Quasi tutte queste casette avevano la porta di legno colorata di verde scuro. Finalmente su un' architrave trovai un'incisione. Non era quella che cercavo, però era altrettanto interessante e rara, raffigurava il disco solare.

 
1° Incisione – Il disco solare, un culto risalente ad un epoca remota nella quale rappresentava il passare del tempo, la nascita e la morte e la forza vitale, la vita legata al mondo agricolo con l’arrivo della bella stagione nella quale sarebbe nato il raccolto. La venerazione al sole era talmente sentita che, come ben sappiamo, le antiche civiltà orientavano verso il sole opere megalitiche come i dolmen e i menhir. Poco dopo ne trovai un'altra alquanto singolare.

 
2° incisione - Sopra il portale rettangolare, racchiuse dentro una specie di lunetta, si trovavano tre croci cristiane collegate tra di loro e generate tutte da un’unica croce centrale. Dopo aver scattato le foto, ripresi il giro tra le case e poco dopo  trovai un’altra incisione sopra ad un'architrave ad arco.

 
3° incisione – Nel centro, una croce incisa recava ai lati delle  braccia la data  16 t 53 ( 1653 ) mentre sotto c’erano incise delle lettere a me incomprensibili. Solo le ultime due lettere come fossero, un segno del destino erano B.P. Riflettei qualche minuto su questa coincidenza, dopodiché ridiscesi il poggio e più avanti ne trovai un’altra ancora.

 
4° incisione – Anche questa molto bella, e non dozzinale  come quelle siamo abituati a vedere. Composta da tre cerchi: il primo a sinistra è incomprensibile, nel centro del secondo troviamo inciso la croce templare, e nel terzo a destra troviamo la luna in parte oscurata. (Antica devozione astrale già raffigurata da parte dei romani). Ne trovai altre, che raffiguravano numerazioni e lettere che per ovvi motivi non sto qua a descrivere. Confermo solo quanto detto in precedenza, queste testimonianze incise non si trovano in nessun altro posto che nel paese fantasma. Poi quasi scoraggiato per non aver trovata la mia…
QUINTO CAPITOLO
La finestra.

Finalmente dopo aver girato in lungo e in largo il paese con la foto del libro visualizzata sul telefono, individuai la casetta che cercavo, ed ebbi un'amara sorpresa. Qualche figlio di buona donna aveva rubato l'architrave che cercavo. Che rabbia nello scoprire che qualcuno si era portato via quel pezzo di storia privandoci della possibilità di osservarla, studiarla e capirla. Mi sedetti sull’adiacente poggio e pensai che forse quell'architrave con quell’incisione poteva essere stata murata sopra la porta di quella che un tempo poteva essere stata la casa ricovero per le giovani partorienti del paese, chissà. Dopo questa mia considerazione ripercorsi tutto il paese per raggiungere l’auto e nel tragitto  ripensai a tutte le sorprese che questo luogo mi aveva regalato. Camminando a passo svelto arrivai  al centro del paese. Il silenzio inquietante era rotto a tratti dal sibilo del vento ed anche la luce entrava tra le case con difficoltà, dando origine a ombre quasi spettrali. Improvvisamente sentii i peli sulla nuca drizzarsi, mi voltai di scatto ma non c’era nessuno, il mio cuore accelerò il battito e un leggero sudore mi gelò la schiena. La sensazione di essere osservato, non mi abbandonava, mi sentii a disagio così decisi di tornare verso casa. Arrivai sulla piazzetta proprio mentre si aprivano le cataratte celesti e un vero e proprio diluvio si riversava sulle vecchie case. Arrivai all’auto bagnato fradicio e il mio primo pensiero fu quello di asciugare il telefonino perché non si danneggiasse. Arrivai a casa che ormai era notte e feci una doccia bollente. Dopo cena mi misi a scaricare le foto dallo smartphone. Non pensavo di averne fatte così tante. Poi, di colpo la mia attenzione fu attratta da una in particolare. Raffigurava una casa a due piani, ancora in buono stato di conservazione, le finestre con gli infissi bianchi avevano ancora i vetri, e stranamente, da una delle finestre, quella che sembrava una figura femminile con un abito celeste sembrava fissarmi. Ingrandisco al massimo l’immagine, ma questa rimane ancora confusa. Incuriosito esamino attentamente anche le altre foto di case con finestre, e in tutte l’inquietante figura è presente. Ho un involontario brivido, e ripenso a quella sgradevole sensazione che ho provato in paese, e devo confessarvi che la seconda visita non la farò mai più.
La mia incisione
22.07.2020 la redazione
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