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L Capitan

Mare Apuano
Spetta/Le Redazione
Sono recentemente venuto a conoscenza di questo fatto realmente accaduto, che ha coinvolto un eroico palombaro della nostra Marina. Oggi quasi scomparsi questi primi operatori subacquei, hanno davvero passato, spesso pagando con la vita, il confine che per millenni ha tenuto l'umanità all'oscuro di ciò che avveniva nelle profondità degli oceani, permettendo quel balzo tecnologico che è oggi un pilastro del moderno modo di vivere.
Liberamente tratto da una storia vera

'L Capitan
La figura del ”capitan” rimane uno dei ricordi più vividi della mia fanciullezza. Questi era un omone, alto oltre la media, con un fisico possente, che la paralisi non era riuscita a intaccare completamente. Aveva una gran massa di capelli bianchi, che insieme a una folta barba dello stesso colore, lo rendevano, per noi bambini, molto simile alla figura di Babbo Natale disegnata sui nostri giornaletti. Nessuno di noi conosceva il suo nome, o il motivo per cui lo chiamassero così. Zoppicava vistosamente, trascinandosi la gamba sinistra, e anche il braccio sinistro aveva una mobilità molto limitata. La parte sinistra del viso, poi, sembrava scolpita nel legno, da tanto che era atrofizzata, e ciò comportava difficoltà anche nel linguaggio. Era sempre seduto fuori della porta della sua casetta, posta appena dietro i ruderi della fortezza Castruccio Castracani, di Avenza. Nonostante queste importanti menomazioni, era sempre gioviale e, anche con noi bambini, molto giocherellone e paziente, cosa non comune negli anziani del tempo. Non si era mai sposato, e, a sentire gli abitanti Avenzini più anziani, la vita non era stata tenera con la sua famiglia. Ultimo di sette figli, si era arruolato in Marina a sedici anni per sfuggire a una vita di fame e di miseria. Il padre era morto quando lui aveva pochi anni, seguito da due figli per il “mal sottile”. La madre rimasta vedova senza alcuna fonte di sostentamento, aveva continuato a fare la lavandaia fino all’ultimo giorno della sua vita, per cercare di sostentare la famiglia. Per noi bambini, soltanto il fatto che lo chiamassero “il capitano”, alimentava le fantasie più sfrenate, come quella che avesse comandato aerei, navi, o enormi carri armati, o interi reggimenti di soldati. Seppi della storia della sua vita, quando lui era già morto, io adulto, sposato con prole, e per un caso assolutamente fortuito.

In occasione della festa della Marina, che si svolge il 10 giugno, portai il mio figlioletto di appena sette anni a La Spezia. Dopo aver visitato alcune navi da guerra dentro l’Arsenale, mi recai al museo della Marina e lì rimasi stupito. Alla sezione dedicata alla guerra subacquea, vidi una foto in bianco e nero del “capitano”, in divisa da guardiamarina, con il petto pieno di nastrini, e medaglie.  Sotto il suo nome per intero, Giovanni Tesconi, vi era scritto “medaglia d’argento al valor militare”, quindi con la calligrafia corsiva, tipica dei documenti importanti, vi era descritta la motivazione. Capo Palombaro istruttore al Varignano, appena dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, aveva partecipato ai soccorsi di un sommergibile, che danneggiato, era rimasto immerso al largo della Spezia, a una profondità di circa trentacinque metri. L’equipaggio del sottomarino era composto di quaranta uomini, e aveva solo pochi giorni di autonomia d’aria. Tesconi con altri due palombari, pensò di sollevare con un pontone la prora del sommergibile, essendo impossibile sollevarlo completamente, e poi fare uscire gli uomini dai portelli di prora. L’impresa si rivelò subito difficile, perché al tempo, quella profondità era detta la “zona della morte”, perché chi vi operava, era soggetto a quella sindrome chiamata “malattia dei cassoni” che oggi sappiamo, essere l’embolia da decompressione. Tesconi con gli alti due compagni, riuscì a fare passare diversi cavi d’acciaio sotto la prora del sottomarino, e per non farle scivolare, le avevano ancorate con altri cavi al basamento del cannone di prora. Ogni immersione di pochi minuti richiedeva ore di lenta risalita, per smaltire le bolle di azoto che si formavano nel circolo sanguigno dei palombari, ma il tempo per l’equipaggio era più che limitato. Quando fu tutto pronto, il potente argano del pontone cominciò a tirare, ma quando la prora del sommergibile era a pochi metri dalla superficie, ci fu come uno strattone. La cima d’acciaio si stava sfilando dalla prora con il rischio che il sottomarino ripiombasse negli abissi, e questa volta per sempre. Tesconi, pur avendo appena concluso un’immersione, e nonostante i compagni lo esortassero a non farlo, s’immerse di nuovo, e bloccò con un morsetto a vita la cima d’acciaio, consentendo così al pontone di fare riaffiorare la prora del sottomarino, e salvare tutti gli uomini al suo interno. Ma quest’atto eroico costò molto caro a Tesconi. Riemerse “a pallone”, mezzo tramortito, sanguinando abbondantemente dal naso e da le orecchie, appena la sua “guida”, ossia chi si occupava della sua pompa, gli tolse il pesante elmo di bronzo, perse conoscenza. Si risvegliò parecchi giorni dopo, all’ospedale di La Spezia. Solo il suo fisico eccezionale gli permise di scampare alla morte, ma il lato sinistro del suo corpo era completamente paralizzato. Dopo quasi un anno riuscì piano, piano a camminare, ma la parola, e il braccio sinistro erano compromessi per sempre. Messo in congedo, il “capitano” non rivelò mai a nessuno il suo gesto eroico, neppure agli amici del paese, perché fermamente convinto, come ebbe a dire, poco prima della sua morte, di “avere fatto semplicemente il suo dovere”.
Mario Volpi
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