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Borghi Medioevali

Borghi Medioevali


Ai tempi dei romani questa fascia di terra era già conosciuta e proprio alla città romana di Luni deve il suo nome . Con La sconfitta dei Longobardi ad opera di Carlo Magno la Lunigiana entra nel Medioevo [ 800 ].
La Lunigiana fu governata fino alla Rivoluzione Francese
[Nel 1861 la proclamazione del Regno d’ Italia segnò la fine di tutti i feudi ]
dalla potente Famiglia dei Malaspina , discendente dagli Obertenghi. Nel 1200 il casato Malaspina di divide in 2 rami [ spino secco e spino fiorito i  quali governarono la Lunigiana dividendola in due terre : destra e sinistra del fiume Magra.
Sotto il dominio dei Malaspina in Lunigiana si costruirono circa 150 castelli sorti nelle zone strategiche e di collegamento come la via  e il Passo della Cisa.
Oltre ai castelli furono costruiti molti luoghi di meditazione e spiritualità come le pieve :
Da ricordare la Pieve romanica di Codiponte, di Sorano a Filattiera e a Crespiano l' edificio romano di Santa Maria Assunta risalente al 1100.

LA TERRA DI LUNA


L'Alta Lunigiana, fra Emilia, Liguria e Toscana, zona di transiti e crocevia di civiltà, ha saputo conservare intatta la sua identità culturale, intrisa di mistero: nel paesaggio,  lussureggiante, a tratti impenetrabile; nei costumi, che riecheggiano riti pagani e magici; nella cucina, fatta di semplici risorse del luogo, dalle castagne alle erbe spontanee. Le genti del territorio, fiere e ostinate, ancora oggi rimangono arroccate, come i propri castelli, sulle fondamenta granitiche di una tradizione che qui, meglio d'altrove, si può rivisitare, andando di borgo in borgo.
Raro è recarsi in Lunigiana a bella posta: l'attraversi, scorrendo via in treno o lungo l'autostrada che dal passo tosco-emiliano della Cisa ti portano al mare Ligure o Tirreno, e quasi non ti avvedi. Scorgi dai finestrini un susseguirsi di boschi, di precipizi e di antichi paesi, sulle alture; costeggi il fiume Magra e porgi distratto l'occhio su ponti, ciotoli e rivi. Poco sai di ciò che ti scruta dai dintorni, della vegetazione selvaggia, dei 100 e più castelli, delle statue-stele, dei borghi medioevali e delle Pievi. Terra di confine, in provincia di Massa Carrara, ma dalla matrice regionale indefinibile, al viandante che volesse soffermarsi, la Lunigiana riserverebbe non poche sorprese: tutto parla di sacralità e di mistero e di condizioni fuori dal tempo, a iniziare dalla cucina "povera", che povera non è.
L'area si è sempre prestata alla strategia del passaggio e  alla cupidigia della conquista, per la sua collocazione a cuneo fra tre regioni e per la morfologia, che concede vallate e crinali fra i meno aspri dell'Appennino. La posizione geografica l'ha collegata con Emilia Romagna, Liguria e Toscana, delle quali ha subito di volta in volta il predominio e gli influssi, ma senza per questo esserne soggiogata. Già nella preistoria, quando l'uomo primitivo e l'orso abitavano le grotte nascoste fra faggi e sorbi, il corridoio naturale servì alle popolazioni nomadi per transitare; poi, dall'età del bronzo o del ferro, il fondovalle divenne il sito stanziale dei  Liguri Apuani. Non si sa se fosse questo l'arcano popolo che lasciò impronte eccezionali sul territorio. Datano 3000 anni a.C. i primi menhir, monoliti in pietra arenaria, che, ritrovati inumati nelle selve, luoghi sacri, sono la testimonianza di una religiosità tribale diffusa in tutta Europa, ma rimasta indenne soltanto qui. Queste strane statue-stele, simbolo di divinità maschili e femminili, diventarono rappresentazione degli eroi armati, in seguito, dopo i contatti con Etruschi e Celti. Sarebbe invece collocabile verso il 900 a.C. il simbolo della Lunigiana, il "testarolo", una sorta di pane azzimo sottile, ricavato dalla "mleca", pastella liquida e cotta su tegliette di terracotta arroventata, che viene rinvenuto in acqua bollente e condito con il pesto. La "testa", o guscio, lo strumento in due parti, perfezionato per cuocere il testarolo, potrebbe essere derivato dai Romani, che nel 180 a.C. sconfissero i Liguri Apuani, deportati in massa nel Sannio, e diedero sviluppo alla vicina Luni, il "porto della Luna". Il fornetto portatile di terracotta divenne compagno indispensabile delle transumanze di contadini e pastori di questa terra sterile, che ha abituato le sue genti a sopravvivere con il poco a disposizione. Fra le due valve di terracotta, poste fra le ceneri ardenti, si fecero cuocere torte di erbe selvatiche e soprattutto impasti di farina di castagne. Non a caso il castagno è considerato "l'albero del pane" in Lunigiana, perchè è stato l'unico rimedio alle frequenti carestie e ha dato tutto di sè, dalle castagne impiegate come moneta e dal legno per mobili e attrezzi, alle  foglie utilizzate per la cottura del pane o della "barbotta", focaccia di farina di castagne e salsiccia. Per questo, insieme ai testi, fu materia di gabelle da parte dei dominatori che si sono susseguiti, dapprima i Bizantini, poi i Longobardi e quindi gli Obertenghi-Malaspina. Questi, nominati feudatari nell'802 da Carlo Magno, rimarranno fino ai tempi della Rivoluzione francese, con il casato diviso in due rami, con stemma "spino fiorito" e "spino secco". Ma i Malaspina, dopo la vittoria sui Vescovi di Luni, nel 1306, di cui fu partecipe Dante Alighieri, si indebolirono: rimase  loro  la riva destra del fiume Magra, mentre Pontremoli e i luoghi circostanti furono presi dagli Sforza, visconti di Milano, e il nord est da Firenze. Per le popolazioni cambiò poco; fra castelli, torri e fortezze, poste a guardia e difesa dei possedimenti, e nelle campagne, la lotta fu sempre la stessa, contro la fame. La povertà era così tanta che i cocci caldi dei testi, rotti e non riparabili, erano applicati sugli arti per curare i reumatismi. L'ingegno dei Lunigianesi si aguzzò fino a ricavare il massimo anche dal terreno più impervio e a non sprecare niente. Dalle selve, si colsero frutti di bosco e funghi, non solo il reale porcino, serbato con l'essiccazione, ma anche specie più rozze, come chiodini e famigliole  Alle colline si strapparono aree coltivabili, con terrazzamenti scavati a forza di braccia, per i vitigni e gli scarsi olivi; si selezionarono colture particolarmente adatte al microclima. Lungo l'estesa rete fluviale, sorsero 300 molini ad acqua per frangere castagne e cereali "umili" come orzo, mais e panico, in quanto il frumento era caro e importato. La produzione di vino dava calorie in più ai braccianti, ma il popolo beveva acqua per molti mesi all'anno e si deliziava con la "vinetta", ottenuta passando acqua calda sulle vinacce, o con il surrogato di corbezzoli. Mentre la morte di una capra o di altre bestie  era un lutto, del maiale si è imparato a sfruttare ogni parte, come nel "gambetto", salume di sangue mescolato con poca carne e grasso. Il latte non è mai stato considerato un alimento, ma l'ingrediente per i formaggi molli o quelli messi a stagionare che, sospesi sopra una vaschetta di lamiera, colavano grasso buono per i lumi. L'olio era talmente raro da ritenerlo sacro e perciò donato per la lampada dell'eucarestia alle chiese, povere quanto le loro pecorelle. Per scacciare il diavolo, vicino ai santuari si vendevano pani con semi di finocchio. Per allontanare i malanni dai neonati, si forgiavano i "pipìn", bambolotti con avvolti i testimoni (capelli, unghie e sangue del piccolo) nel panno rosso, che, benedetti dal mago, o dal prete, erano seppelliti in luogo segreto. Per salvare i viandanti dalle insidie, lungo le mulattiere, sui portali delle case o nelle campagne venivano costruite le "maestà", ricoveri senza porta, sormontati da bassorilievi di marmo. I riti per propiziarsi il fato non si contano: l'usanza  dei grandi falò collettivi, rimasta nei vari paesi, era dovuta al bisogno di comunicare con il Santo preferito, che era interpellato scrutando la quantità e la qualità delle scintille. Le selve furono teatro di fole, come quella delle fate che uscivano nude di notte per correre in cerca d'amore, o di fatti religiosi, come quello di Podenzana, della Madonna apparsa su un castagno. Sacro e profano s'inseguono e si confondono in Lunigiana, dove i castelli ospitano fantasmi inquieti e si fabbricano amuleti antimalocchio, detti "brevin", con tre chicchi di grano. Nemmeno la fine del feudalesimo mutò sostanza ed essenza di uomini e donne del territorio, che venne diviso fra Regno Italico e Regno d'Etruria e quindi, nell'800, fra Estensi di Modena e Granducato di Toscana. Così la spartizione fra i ducati di Parma e di Modena e la successiva annessione al Regno di Sardegna lasciarono invariata la situazione. Trovata l'unità, la Lunigiana è rimasta fedele a se stessa, con i vecchi problemi, i terreni lacerati in piccoli appezzamenti individuali, la mancata industrializzazione e la propensione all'emigrazione, ma prodiga di ospitalità e di affascinanti tradizioni.                                                                     

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