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Castello della Pietra

Itinerari liguri

I Capitolo L’incontro
Vobbia anno del Signore 1361

La tempesta lo aveva sorpreso, dal nulla erano arrivati densi nuvoloni che avevano coperto il cielo, facendo sembrare che si fosse già all’ora nona.
Un freddo vento da Est aveva iniziato a mugghiare tra i rami spogli del bosco, quasi fosse un toro furioso, facendoli piegare, e costringendo Fra Girolamo ad alzare il cappuccio del logoro e consunto saio.
Non era più in grado di fare questi viaggi, era ormai vicino alle ottanta primavere, ma non si poteva certo disobbedire a un ordine del Priore. Rivolse lo sguardo alle nuvole grigie e gonfie di pioggia e in quell’istante un grosso tuono lo fece trasalire, e spaventò talmente l’asinello che questi prese a scalciare ragliando disperatamente, tanto che a stento il vecchio frate riuscì a trattenerlo prima che si desse alla fuga. Quasi fosse un segnale le cateratte del cielo si spalancarono, e torrenti di acqua gelata si riversarono sul sentiero dei castellani, che s’inerpicava, sinuoso come un serpente, tra i secolari alberi del bosco, zuppando e infradiciando le foglie cadute, trasformandole in una scivolosa fanghiglia. Tra le nuvole nere dilaniate dal vento i lampi sembravano ferite di luce, i fulmini disegnavano nel cielo nero dei ghirigori di fuoco, seguiti da tuoni assordanti, che facevano vibrare la terra, come se si dovesse spaccare da un momento all’altro. Il povero frate non poté fare altro che legare l’asinello a un albero, e rannicchiarsi come meglio poteva tra le radici di un gigantesco castagno, sperando che quel pandemonio finisse presto. Zuppo fino al midollo, ben presto cominciò a tremare dal freddo, capì che doveva muoversi, l’ora dei Vespri si avvicinava, e non era salutare rimanere di notte nel bosco. Quando gli parve che la tempesta si fosse un pò calmata, slegò l’asinello, e dopo avergli fissato saldamente la fune alla cavezza, cominciò a tirarlo, mentre s’inerpicava faticosamente per l’erta mulattiera che lo avrebbe condotto al Castello della Pietra. La pioggia era quasi cessata, ma il vento, era aumentato d’intensità, facendogli gelare addosso il saio fradicio di pioggia; si sentiva in cuore in gola per la fatica della salita, ma allo stesso tempo provava la sensazione di essere immerso in una pozza d’acqua gelata. Sentendosi mancare le forze, si mise a pregare sottovoce, e proprio quando si sentì prossimo alla fine, lo vide. Quel castello lo aveva sempre affascinato, e ogni volta che lo vedeva, pensava alle fatiche inumane che dovevano avere sopportato i costruttori di quell’autentica meraviglia. Costruito nel mezzo di due alti e spogli pinnacoli in pietra, il castello era pressoché invisibile dal fondovalle, inaccessibile come un nido d’aquila, era posto a guardia dell’importantissima via del sale, che passando da Vobbia, si dirigeva verso Genova, e poi verso la ricca e fertile vallata Padana. Nessuno era mai riuscito a espugnarlo, e il suo Signore, Oppizzone Della Pietra, con un pugno di armigeri, controllava tutto il territorio, assicurando, per un ricco compenso, una scorta armata, a viandanti e mercanti che volevano raggiungere L’Emila. Due giorni prima, un messaggero era giunto al Convento e aveva chiesto al Priore che inviasse un esperto Padre Confessore al Castello, con estrema urgenza. Così, nonostante fosse un povero vecchio, e che si fosse nel pieno dell’inverno, era dovuto partire, essendo i frati più giovani inadatti a quell’importante missione. Ora, dopo due giorni di viaggio in groppa al fido asinello, ringraziando il Signore era arrivato. La pioggia era cessata, ma le ombre scure della notte erano già scese e le forme di quel poderoso maniero apparivano sfumate tra la fitta nebbia che nel frattempo era calata come un umido sudario. Con sgomento il frate vide che il pesante ponte levatoio era già stato sollevato, e sperava vivamente di non dover passare la notte all’addiaccio! Non avrebbe visto il mattino! “Chi va la!” urlò la sentinella seminascosta da una feritoia posta sopra il camminamento di ronda, “sono padre Gerolamo, del Convento di San Colombano da Bobbio e chiedo udienza a sua Signoria”. Dopo poco, con un rumore di catene il ponte levatoio fu calato e il grosso portone rinforzato da borchie di ferro si aprì. Il Capitano delle guardie, con un armigero che portava una lanterna, uscì, e dopo essersi assicurato della reale identità del frate, lo fece entrare. Appena dentro, ci si accorgeva di quanto fosse stato abile, e astuto, il costruttore di quel maniero. Chiunque dopo aver abbattuto il portone fosse riuscito a entrare, si sarebbe trovato in un grosso cortile circondato dai quattro lati da un alto muro senza scale d’accesso, restando così alla mercé degli arceri che, dalla sommità del muro, avrebbero fatto strage degli assalitori. Una scala di corda fu calata, e non senza difficoltà il vecchio frate salì fino in cima. Si trovò in un ampio salone, riccamente affrescato, con pesanti tende di broccato, che oscuravano delle ampie finestre che si affacciavano a dominare tutta la val Vobbia. Il Siniscalco lo accolse, baciandogli la mano con devozione, poi, dopo averlo condotto vicino a un camino dove ardeva un bel fuoco, chiamò una sguattera, ordinandogli di portare vestiti asciutti e panni di lino caldi per asciugarsi. Rinfrancato da quel dolce tepore, il frate fu condotto in un’enorme sala da pranzo, dove al centro troneggiava un lungo tavolo di legno massiccio, contornato da sedie con alte spalliere, sul fondo della sala un grosso cavalletto munito di corda e carrucola, era adibito ad attingere acqua nella sottostante cisterna. Dopo averlo fatto sedere, il Siniscalco gli fece portare pane di segale, formaggio e vino, e mentre il frate affamato mangiava avidamente, gli spiegò il motivo della sua chiamata. Dopo pochi minuti fu fatto entrare al cospetto di sua Signoria. Una lucerna schermata da un panno rosso creava una luce quasi irreale nell’austera camera. I famigliari e l’intera Corte, erano radunati attorno al gigantesco letto a baldacchino. Sua Signoria Oppizzone Della Pietra, supino, era coperto fino al mento da una ricca trapunta di seta con impuntature dorate, teneva gli occhi chiusi, e le braccia distese, la barba bianca incorniciava un viso smunto ed emaciato, il respiro, affannoso e irregolare, muoveva appena lo scarno torace sotto le pesanti coltri. Il Siniscalco si avvicinò, e dopo essersi chinato, gli mormorò qualche cosa sommessamente nell’orecchio. Oppizzone aprì gli occhi, e faticosamente con la mano destra fece segno al frate di avvicinarsi, poi con un fil di voce disse agli astanti “uscite”. Raccontò al frate che quel maestoso maniero era il suo “sogno di pietra”, e che per farlo avverare, fece azioni riprovevoli, come costringere i feudatari a lavorare fino allo sfinimento, o dissanguandoli con tasse inique e ingiuste, per finanziare il suo desiderio. Un violento colpo di tosse, lo interruppe, poi dopo alcuni minuti riprese la confessione. Aveva preteso il compenso per la scorta anche dai pellegrini, che non potendolo pagare, avevano cambiato percorso, restando spesso vittima dei “briganti delle strade”. Dopo aver preso l’Eucarestia e aver avuto l’Estrema Unzione con voce strascicata e incomprensibile alle orecchie del frate sussurrò alcune parole : “ Fedro, diavolo, anima, ponte, …. ”, poi da sotto le lenzuola estrasse un manoscritto sigillato con ceralacca e lo porse al frate, con un rantolo poi rese l’anima a Dio e fu il silenzio eterno.

La storia

Alla scoperta del Castello della Pietra e la leggenda del ponte di Zan ( il diavolo e il cane )
Sentiero dei Castellani
Punto di partenza Vobbia ( GE ) località Torre.
Dopo aver lasciato la macchina nella piccola corte della località si prende il sentiero di facile individuazione
( una didascalia con cartina è il punto di partenza ) che sale sinistra.
Storia Castello
Il castello sorge tra due torrioni di rocce di puddinga,  un agglomerato composto da grosse pietre che sono tenute tra di loro da una malta composta dal disfacimento di molluschi alghe e conchiglie. Venne fatto costruire dai Vescovi Corti di Tortona per respingere gli attacchi dei saraceni, la prima fonte ufficiale che lo cita risale al 1252 e ne riporta come proprietario un certo Opizzone Della Pietra. Non si sa con certezza se Della Pietra fosse il suo cognome e quindi se il castello deve a lui il suo nome o viceversa. Secondo gli studiosi questo signore era un discendente  dei Malaspina e nel 1252 firmò un atto di non belligeranza con i feudatari della zona. Sempre nello stesso anno negli annali del Caffaro, ( gli annali della Repubblica di Genova ) si registra di una vittoria schiacciante di Genova nei confronti di Opizzone reo di aver imprigionato nel suo castello due uomini del consiglio della Repubblica; pare che Genova gli mandò contro una parte dell’esercito per liberare i due nobili, lo sconfisse e lo fece portare in catene in  prigione. Questo episodio però suscita non poche perplessità per la sua ubicazione e per lo stratagemma contro le invasioni ideato da Opizzone la fortezza era inespugnabile quindi è difficile pensare che i soldati genovesi siano riusciti ad entrarvi con la forza. E' piu probabile che per la liberazione dei due sia stato pagato un riscatto o che Opizzone fu tradito da qualcuno dei suoi uomini che lasciò la porta aperta e il ponte levatoio giù. Questa ipotesi potrebbe trovare riscontro nel fatto che dopo una breve prigionia Opizzone ritornò a casa sua senza danno alcuno. Nel 1300 la dinastia della piccola famiglia Della Pietra finì e il castello passò nelle mani della famiglia genovese degli Spinola e con loro il castello fu trasformato in una fortezza di dazio. Il suo proprietario viveva a Genova e nel maniero risiedeva il suo uomo di fiducia: il "castellano" con la sua famiglia e  una guarnigione di una ventina di uomini con il compito di controllare gli accessi alla via di comunicazione sottostante. La strada  collegava le due più importanti vie di comunicazione fin dall’ antichità: la Postumia ,cioè l' attuale Serravalle, e la via del sale che collegava tutta una serie di vie che da Genova portavano il sale verso l’interno della pianura padana. Quindi vie trafficatissime frequentante da pellegrini, commercianti ma anche da briganti. Proprio per non correre il rischio di essere derubati chi passava da quelle parti preferiva una via secondaria come questa che, a fronte del pagamento di un pedaggio garantiva un transito sicuro sotto una scorta armata. Questa “attività” andò avanti fino al 1518 quando morì l’ultimo Spinola senza lasciare eredi maschi e il castello passò sotto la famiglia degli Adorno che, nonostante non vi abitassero, lo fecero ristrutturare cercando di renderlo più vivibile rispetto agli anni precedenti e fecero rinforzare l’unico muro di difesa del lato vulnerabile dato che erano state inventate le armi da fuoco e che doveva quindi resistere alle cannonate. Sempre gli Adorno modificarono anche una parte dell’interno della stanza-trappola posta al piano terra e costruita da Opizzone.

Fortezza inespugnabile.
Gli invasori, anche se avessero trovato il ponte levatoio giù e scardinato la grande porta d’ingresso, si sarebbero ritrovati in una piccola stanza dalla quale si aveva accesso ai piani superiori solo grazie ad una scala a pioli retraibile, quindi se qualcuno non era invitato la scala non era presente e non si poteva salire. La scala veniva ritirata di notte o quando c' era pericolo, così che anche se si fosse riusciti ad arrivare al primo piano si rimaneva ammassati nella piccola stanza mentre i difensori scagliavano pietre e olio bollente Questo è il modo di vita del castello fino al 1797, anno in cui in Italia arrivò Napoleone Bonaparte che destituì i feudi Imperiali Liguri togliendoli alle famiglie e di conseguenza anche agli Adorno. Il castello fu attaccato, depredato e poi dato alle fiamme e di conseguenza abbandonato per anni. Solo nel 1918, non essendoci più  i feudi e decaduta la clausola che imponeva il passaggio per via testamentaria, il Castello venne comperato dalla famiglia Beroldo di Torre che lo tenne fino al 1980.  Alla morte del  cavaliere Beroldo la famiglia lo donò al comune di Vobbia che dopo 14 anni di duri lavori di restauro nel 1994 lo aprì finalmente al pubblico.  
L’interno.
Al piano terra si trovava il locale trappola e l’ingresso vero e proprio era al primo piano, dove ancora oggi  nella parete sono presenti i fori dove erano incastrate le catene del ponte levatoio. Il secondo piano  non è più di tipo militare ma civile,vi sono delle stanze,in una i resti dell’intonaco e la presenza di un grande camino ci danno la quasi certezza che li vi fosse il salone principale, dall' altra parte si trovava la cucina, mentre le altre due stanze erano la camera del castellano e quella degli ospiti. A questa altezza si trova all’esterno la prima cisterna di acqua piovana scavata nella roccia e in questa stanza si trovava il pozzo collegato alla cisterna che tramite una carrucola tirava su l’acqua. Oltre all’acqua le scorte di sopravvivenza erano composte da farina di castagne, selvaggina frutta e verdura che coprivano il fabbisogno di circa 40 persone per sei mesi. Fuori da questo piano troviamo il camminamento di ronda tra la roccia e il muro esterno del castello, in questo percorso sulla sinistra si trova anche la seconda cisterna d’acqua e dopo qualche minuto arriviamo al punto di guardia che si apre sulla vallata e lascia vedere il ponte medioevale di Zan, detto del diavolo. Salendo all’ultimo piano troviamo la caserma con le stanze dei soldati.
La leggenda di Zan

Secondo capitolo
Il ponte dell'inganno
Fra Girolamo racconta della lettera lasciata da Oppizzone.

Oppizzone voleva costruire un ponte per attraversare il torrente Vobbia dove incontra la confluenza con un altro torrentello che scende dalla valle opposta. Questa costruzione si rendeva necessaria per guadare il fiume in modo da raggiungere agevolmente e velocemente la vallata opposta. Era disperato, non trovava nessuno che fosse disposto a rischiare la propria vita per realizzare quel ponte. Il luogo era ritenuto dai paesani costruttori molto rischioso e pericoloso. Era una notte di ottobre e l’autunno avanzava a grandi passi. Nei boschi di castagno circostanti il verde delle foglie aveva ceduto il passo a un giallo dorato. Le cime più alte degli alberi erano già spoglie e protendevano i loro rami simili ad artigli contro il cielo nero, come se cercassero di trattenere l’estate che inesorabilmente fuggiva via. A ogni alito di vento, nugoli di foglie si staccavano, e volteggiando leggere come leggiadre farfalle, cadevano a terra, formando un soffice tappeto alla base degli alberi. Il tempo era terribile, nuvoloni neri si rincorrevano, aggrovigliandosi e sfilacciandosi sotto il forte vento che ululava sinistramente tra le gole del torrente. Po uno scroscio di pioggia improvviso face spengere la lucerna a olio che l’uomo teneva in mano. Accigliato e pensieroso si era fermato al riparo di una grossa quercia nel punto esatto dove avrebbe voluto costruire il ponte, quando un rumore lo spaventò e girandosi di scatto vide avanzare verso di lui un uomo dall’aria tetra e cupa. Sorpreso da quella presenza Oppizzone trattene il respiro, in quella notte buia come il diamante nero gli occhi dell’uomo che avanzava sembravano carboni ardenti. Era il diavolo in persona. Seguì un breve silenzio tra i due, Oppizzone fece un mezzo passo indietro, poi il diavolo gli chiese il motivo della sua disperazione.
Dopo aver ascoltato la richiesta disse : - Io posso aiutarti a realizzare ciò che desideri e potrei costruire il tuo ponte in una sola notte.
- Ne dubito - ripose Oppizzone, indugiando sospettoso.
- Bhe! Se è così mettimi alla prova allora - rispose il diavolo, - però devi sapere che ci sarà un caro prezzo da pagare.
- E quale sarebbe, sentiamo - rispose Oppizzone.
- Mi prenderò la prima anima che passerà dal ponte - rispose il diavolo.
Dopo un attimo di silenzio e da buon genovese Oppizzone rispose che prima avrebbe voluto vedere il ponte e poi si sarebbe parlato della sua richiesta. A quel punto una strana luce si accese negli occhi da lupo del diavolo che guardandolo di sbieco esternò un finto sorriso e accettò. Con una stretta di mano si congedarono. Il diavolo, con voce risentita, gli disse che lo avrebbe aspettato la mattina successiva alle ore 7. Poi con mutata indecisione Oppizzone tornò al castello, quasi si fosse pentito di aver accettato la sfida passò tutta la notte in bianco. La mattina successiva slegò il suo cane Fedro dalla catena e all’ora prestabilita si recò sul posto. Incredulo e sbalordito vide che il ponte era lì davanti a lui.
- Ahahahah - una risata portata dal vento echeggiò nella gola del torrente - Com’è Oppizzone, non credi ai tuoi occhi! - Dall’altra parte del ponte il diavolo lo aspettava, sulla sua faccia vi era disegnato un ghigno sardonico e con enfasi esclamò: - Hai perso Oppizzone, hai perso la scommessa. – Dentro di sè il diavolo sperava che l’uomo attraversasse il ponte e così gli avrebbe potuto prendere l’anima.
Seguì un breve silenzio, poi Oppizzone ancora incredulo osservò il ponte, scosse la testa meditando e come un freddo e controllato giocatore senza proferir parola prese dalla tasca del suo giubbone una formaggella e la tirò al centro del ponte. A quel punto il cane che si era portato dietro corse a prenderla e attraversò il ponte.
- Ecco la tua prima anima - rispose Oppizzone, - non sei contento, come vedi hai ottenuto ciò che volevi, hai vinto, hai vinto tu. A quel punto il diavolo si mise ad imprecare contro di lui agitando isterico le mani. Con ira e rabbia scagliò una lancia contro la bestia, l’arma fendendo l’aria si conficcò nel costato dell’animale che di lì a breve annegò nel proprio sangue. Poi con voce acuta e irritata rispose che lui avrebbe voluto la sua di anima e non quella di un cane. Con lenta determinazione Oppizzone rispose - Allora ieri sera ti sei espresso male, hai detto "prenderò la prima anima che passerà dal ponte", senza specificare di quale anima si trattasse. Eccola là, al centro del ponte, l’hai avuta. Prendila è tua! Il diavolo andò su tutte le furie, isterico e rabbioso fece crollare la montagna soprastante, grosse pietre precipitarono giù nella gola ma, nonostante ciò, la sua opera era fatta talmente bene che ancora oggi, mentre i ponti moderni sono crollati quel ponte medioevale è ancora lì.
Dopo la sua morte, sperando di essere perdonato per ciò che aveva fatto e anche per aver sacrificato la vita del suo fedele cane, stabilì che fin quando la sua casata fosse esistita, ogni pellegrino che fosse passato dal Castello delle Pietre avrebbe avuto scorta e viveri per proseguire il viaggio gratuitamente”.
Vobbia, 15 maggio anno del Signore 1301
Oppizzione Della Pietra
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