Un pesce di legno
Di Cybo in Cibo
Spetta/Le Redazione
Com'è stato possibile che un pesce pescato e lavorato a migliaia di chilometri di distanza, lo stoccafisso, e il baccalà, sia diventato parte integrante della tradizione culinaria carrarina? Leggendo l'articolo il mistero verrà risolto!
Piazza delle Erbe Carrara
Per secoli, nel territorio Apuano, intere generazioni di cavatori, e le loro famiglie, hanno potuto sopravvivere alle crisi economiche, che spesso la stagnazione del settore lapideo scatenavano, nutrendosi di cibi poco costosi, ma molto saporiti, e nutrienti, soprattutto ricchissimi di proteine, necessarie al mantenimento del tono muscolare, come il merluzzo essiccato o salato, chiamato secondo i casi stoccafisso e baccalà, e il lardo. Mentre il lardo era prodotto nel territorio, e stagionato in conche di marmo a Colonnata, il baccalà, e lo stoccafisso, provenivano da isole distanti poche centinaia di chilometri dal tetto del mondo: il Circolo Polare Artico. Com’era potuto accadere che un cibo ricavato dal mare, prodotto a migliaia di chilometri di distanza, sia entrato prepotentemente a far parte della tradizione culinaria di un territorio montano come quello Apuano? Si racconta che tutto ebbe inizio a causa di un naufragio avvenuto alla metà del 1400, di un mercante, e Senatore della Repubblica di Venezia, Pietro Querini. La sua nave fu disalberata da una furiosa tempesta, e vagò per settimane, spinta dalla potente Corrente del Golfo, nel tempestoso mare a nord dell’Irlanda, fino a quando l’equipaggio decise di abbandonarla, imbarcandosi su due scialuppe. Di una si persero le tracce, mentre l’altra con a bordo il Querrini, e pochi superstiti, approdò in una delle isole Lofoten, dove visse con i pescatori locali per quasi quattro mesi. Quando tornò in patria portò con se alcuni stoccafissi, che andarono a ruba, così egli divenne il primo importatore ufficiale di stoccafisso e baccalà della storia, nel territorio italiano. Nonostante ciò, a distanza di secoli, in diverse città italiane, molta gente fa ancora confusione, chiamando genericamente “baccalà,” anche lo stoccafisso, ignorando che pur essendo lo stesso pesce, uno è essiccato intero all’aria, mentre l’altro completamente squartato, è conservato sotto sale. A Carrara il baccalà e lo stoccafisso, sono stati considerati da sempre, un cibo invernale. I motivi di questo sono abbastanza ovvi. D’estate il sale sul baccalà si scioglieva, andando a influire sulla qualità del prodotto, mentre ammollare uno stoccafisso in casa in estate, avrebbe reso l’aria irrespirabile. Quindi si cominciava nel mese di ottobre con le vendemmie, perché agli uomini in giornata al lavoro nei vigneti, il cibo classico che veniva offerto per tradizione, ma anche per il suo apporto energetico, era polenta e stoccafisso. Anche l’acquisto dello stoccafisso seguiva delle regole codificate ben precise. Il negoziante il lunedì, batteva, e metteva ad ammollare in acqua corrente il numero di stoccafissi che riteneva di poter vendere, quindi il giovedì, si passava alla sua pulitura, con rimozione delle viscere e ventresca, che veniva equamente distribuita tra i clienti. La vendita vera e propria avveniva solo il venerdì, qualcuno dice per motivi religiosi, ma più semplicemente perché, dopo una prima vigorosa battitura, e cinque giorni in acqua corrente, lo stoccafisso era pronto per la cottura. Il baccalà invece seguiva un percorso diverso. Era servito anche crudo, e gratis, nelle “cantine,” più tradizionali, ma il cantiniere non lo faceva certamente per bontà d’animo. Il tutto funzionava così: un pezzo di baccalà privato della lisca centrale, era posto sul bancone di mescita, su un pezzo di carta gialla che usava al tempo. L’avventore poteva servirsi da solo strappandone un lembo con le mani, o tagliandone un pezzettino con il coltello in dotazione, e dopo averlo scrollato dal sale, lo mangiava. Questo ovviamente invogliava a bere un’altra “cavalleria,” ossia un quarto di vino. Io stesso ho assistito nel corso di un pomeriggio, al consumo da parte di una sola persona di quindici cavallerie. Alcune cantine invece, sempre per il medesimo motivo, lo servivano marinato a pezzi molto piccoli, ad un prezzo “politico,” ben sapendo che ci avrebbero ugualmente guadagnato. Il baccalà marinato era cucinato frequentemente dalle famiglie non solo, per il suo costo contenuto, e per il gusto squisito, ma soprattutto perché, visto l’alta percentuale di aceto che conteneva, poteva durare giorni senza deteriorarsi, anche in condizioni difficili, non disponendo al tempo di nessun tipo di refrigerazione. Tipico esempio era il frequente pasto invernale del cavatore. Consisteva in metà filone di pane casereccio, cui si asportava la mollica interna, escluso il pezzo sommitale usato come tappo. Nel foro così formato, si mettevano tre o quattro pezzi di baccalà marinato, si richiudeva il tutto e s’infilava per il trasporto in una manica del “matalò” (la giacca.) In tali condizioni sia igieniche, che di temperatura, molti altri cibi si sarebbero irrimediabilmente contaminati. A Marina di Carrara, il baccalà, era un cibo considerato tra il sacro e il profano, perché lesso con i ceci, era il cibo tradizionale per il Venerdì Santo. In tempi più recenti il baccalà era frequentemente usato sotto forma di frittelle, in occasione di sagre o feste Patronali, o di Partito politico, dove dall’impasto si toglieva un po di baccalà, e si aggiungeva furbescamente, un pizzico di bicarbonato di sodio, che faceva diventare le frittelle gigantesche, anche in assenza dell’ingrediente principale. Proprio come nel maiale del baccalà non si gettava via nulla. La lisca centrale e la pelle, dato il loro forte “aroma,” erano usate come esca all’interno di nasse di giunchi, poste in mare, o nei fiumi, per catturare i pesci, mentre nei Paesi a Monte carraresi, la pelle del baccalà era usata per difendere il pollaio dalle incursioni della volpe. Oggi solo a descrivere questi metodi, si prova un senso di incredulità e di vergogna per la loro crudeltà, ma al tempo la perdita di una gallina, e delle sue uova, potevano rappresentare il confine tra sopravvivere, o morire di stenti. Si procedeva così. Si poneva un grosso amo ad ancoretta, nascosto nella pelle del baccalà, e questo appetitoso boccone era appeso a una distanza da terra tale, che per morderlo, l’animale dovesse saltare, l’epilogo era scontato. Delle numerose rivendite di stoccafisso e baccalà in città ne è rimasta solo una, mentre, simulacri di questi due alimenti vengono venduti già “bagnati,” spesso con sostanze chimiche che ne accelerano la morbidezza, e desalinizzazione, nei supermercati, ma che di stoccafisso e baccalà, hanno solo la dicitura sull’etichetta. Anche la pezzatura dei singoli esemplari è cambiata, da oltre un metro, si è passati a veri e propri neonati, forse a causa all’eccessivo sfruttamento del mare. Anche della pregiata varietà “stoccafisso ragno,” non si hanno più notizie, ma è ininfluente per il venditore, visto che la maggior parte delle persone non sanno neppure che esista. Così la secolare tradizione della preparazione del “pesce di legno,” si sta perdendo, sacrificata alla fretta, all’ignoranza culturale, e al cosiddetto “progresso.”
Enzo De Fazio 1.8.21
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